L’insostenibile filosofia tedesca dell’austerità


Pubblico qui di seguito un articolo del Prof. Ruggero Paladini, dell’Università “La Sapienza” di Roma, comparso sul numero di novembre della rivista “Insight” (www.insightweb.it) e, in calce, alcune domande  che rivolgo all’Autore:

Il rapporto al Congresso USA “on International Economic and Exchange Rate Policies”, ha detto ciò che la stragrande maggioranza degli economisti (escludendo i tedeschi) sostiene da tempo. Cioè che la politica economica tedesca determina una tendenza deflazionista a livello mondiale. L’alto surplus commerciale tedesco ha un effetto equivalente, negli altri paesi, ad una politica economica restrittiva. Figuriamoci poi quando la Germania ed altri alleati nordici impongono a tutti i paesi europei proprio una politica fiscale restrittiva, con il fiscal compact, l’obbligo di costituzionalizzare il pareggio di bilancio ecc…

La risposta ufficiale del governo tedesco è stata, più o meno, la seguente: cosa possiamo farci se le nostre imprese esportatrici sono così brave? Certo, nessuno mette in dubbio la tecnologia germanica, l’affidabilità dei prodotti, delle consegne e così via. Ma questa superiorità delle imprese tedesche è solo una parte della storia. Innanzitutto va ricordato una semplice ma fondamentale relazione di contabilità economica nazionale. Il risparmio di un paese è uguale ai suoi investimenti, al deficit di bilancio e all’attivo della bilancia commerciale. L’identità può essere espressa o nei valori assoluti o come quote sul PIL. Con i simboli ben noti della macroeconomia:
S = I + (G-T) + (X-M)

dove il risparmio interno (S) controbilancia gli investimenti (I), il deficit pubblico (le spese per servizi G meno le entrate al netto dei trasferimenti T) e il saldo commerciale (esportazioni X meno importazioni M). Nel caso della Germania, il grande surplus commerciale è a fronte di una domanda interna compressa. Se consideriamo la quota di risparmio come data, in quanto relativamente più stabile rispetto alle altre quote, è evidente che ad un maggior peso di una delle tre componenti deve corrispondere un peso minore delle altre due. Ciò è quello che si è verificato in Germania. Se guardiamo agli ultimi sei anni, cioè da quando è cominciata la crisi, di fronte ad una quota relativamente stabile, intorno al 17,5%, degli investimenti, il fenomeno è stato quello di un azzeramento del deficit ed un aumento del saldo commerciale, che ha superato anche i limiti del 6% stabiliti dalla procedura di Bruxelles sugli squilibri macroeconomici.

Semplificando, con pari investimenti e minor deficit, il risparmio ha finanziato surplus commerciale.
Ma, come ha ricordato più volte Krugman, la Germania non ha sempre avuto dei surplus delle partite correnti.  Li ha avuti durante gli anni ottanta, e di nuovo negli anni duemila. Ma negli anni novanta il saldo delle partite correnti era in passivo. E la ragione è molto semplice: l’unificazione tedesca, la quale determinò un forte aumento del deficit pubblico. Aggiungiamo anche la rivalutazione del marco (prima dell’euro), nei confronti di alcune valute, tra cui la lira. Con l’unificazione monetaria, non dovendo temere più le svalutazioni degli altri paesi dell’euro, il processo verso il pareggio di bilancio è l’altra faccia dell’imponente crescita del saldo commerciale tedesco.

Le politiche di austerità imposte da Berlino e Bruxelles si ispirano all’idea che tutta l’area euro possa seguire la strada della Germania. Così non è stato. Né l’Italia né tanto meno la Spagna hanno una industria manifatturiera come quella tedesca. E’ vero che le esportazioni sono cresciute nei due paesi, in particolare in Spagna, dove il costo del lavoro è diminuito con i licenziamenti e i tagli salariali. Ma dato il peso limitato dell’export italiano e spagnolo (sul 30%), rispetto a quello della Germania (più del 50%), l’aumento delle esportazioni non compensa il calo dei consumi, dovuto al diminuito potere d’acquisto dei lavoratori.

Di conseguenza la stretta fiscale ha sì fatto diminuire i deficit, ma ha causato una caduta del PIL; a sua volta questa ha fatto diminuire gli investimenti, particolarmente in Spagna (-36,9%, a causa della bolla immobiliare) ed in Italia (-14,6%, ma l’Italia partiva da un livello inferiore di un terzo a quello spagnolo). In entrambi i paesi, pur essendo diminuito il risparmio (minore S a causa di un minore PIL), una quota maggiore è andata a finanziare il miglioramento del saldo della bilancia commerciale.

Probabilmente anche Frau Merkel si rende conto che un avanzo commerciale del 7% attira l’ira non solo degli americani, ma anche degli altri paesi europei. Dovendo formare un governo di coalizione col la SPD, e non volendo cedere su eurobond, mutualizzazione dei debiti sovrani o altre forme di trasferimenti anti-ciclici tipiche di sistemi federali, dovrà accettare misure in termini di minimi salariali ed altre, che si traducono in un aumento del reddito disponibile. Di questo ne trarranno vantaggio gli altri paesi europei, in particolare quelli piccoli intorno alla Germania (Belgio, Olanda ecc..), ma l’effetto su Francia, Italia e Spagna sarà  limitato (più o meno un + 0,15% di PIL). Anche perché il fiscal compact vale anche per la Germania, la quale anzi ha introdotto in Costituzione un limite dello 0,35% di deficit, invece di quello di 0,5%.

Visto che Mario Draghi sembra deciso a seguire la linea espansiva della Federal Reserve, il nodo fondamentale riguarda appunto le regoli fiscali sull’equilibrio di bilancio e l’obbligo alla riduzione del debito. E’ chiaro che queste regole condannano gli altri paesi ad una semi-stagnazione. Non è vero che un bilancio in pareggio è un bilancio neutro. Se non vi fosse debito pubblico (o fosse trascurabile) questo sarebbe vero; anzi secondo il teorema di Haavelmo la spesa diretta per servizi o per investimenti del settore pubblico avrebbe un effetto più espansivo del prelievo fiscale.

Ma con un alto debito, e quindi un’alta spesa per interessi, ciò non è più vero. La spesa per interessi dà luogo ad un effetto moltiplicativo molto basso, vicino a zero. Pertanto un bilancio in pareggio determina un impulso restrittivo all’economia. Se l’economia crescesse ad un ritmo troppo elevato bisognerebbe avere un bilancio in pareggio o addirittura in attivo, ma la situazione in cui si troverà l’Europa nei prossimi anni è proprio l’opposto di una crescita eccessiva.

Ed ecco le mie domande:

Gentile Professore,

ho letto sul numero di novembre di “Insight” il suo bell’articolo sulla “questione tedesca e l’Europa” (ci risiamo! E’ evidente che nulla e nessuno potrà togliere alla Germania il ruolo egemone che la geografia e la storia le hanno assegnato, bona pace della Francia). La sua argomentazione è talmente chiara e ineccepibile che mi chiedo e le chiedo:

–        Quali sono le ragioni che inducono la Germania di Frau  Merkel a mantenere questa politica economica (non penso che l’inserimento al governo della SPD possa mutare radicalmente questa Neigung)?

–        Perché escludere che il nostro sistema produttivo (secondo in Europa, almeno fino a non molto tempo fa, solo alla Germania), con opportune e urgenti misure politiche possa tenere il passo tedesco nell’export?

–        Non crede che ad alimentare la diffidenza dei tedeschi siano gli scarsi segnali di resipiscenza dimostrati dall’Italia in relazione ad una vision politica restata conservatrice (nessuna lotta seria agli sprechi, alla corruzione, all’evasione fiscale, agli esorbitanti costi dell’amministrazione statale, centrale e periferica, largamente “spartita” con criteri consociativi)?

–        Non crede che pesi il confronto con le scelte dolorose compiute da Schroeder tra il 2002 e il 2005 (piano Harz), scelte che l’Italia non ha mai fatto, arroccandosi piuttosto in difesa dei privilegi delle tante, potenti corporazioni che la governano?

–        Se la montagna della crisi partorisce il topolino della legge di stabilità attualmente all’esame del Parlamento, ci si può forse stupire se la Germania ha paura di mettere a repentaglio il risultato di tanti sacrifici, di tanti radicali cambiamenti compiuti, cambiamenti che hanno mutato nel profondo il profilo sociale e produttivo del paese, per riaccendere spirali inflazionistiche che andranno, in un panorama politico sostanzialmente immutato, ad alimentare nuovamente sprechi, malgoverno, un sistema di partiti abnorme, disfunzionante e di un livello culturale mediamente indecente?

Da non esperto sicuramente sbaglio e vorrei che lei mi correggesse: personalmente spero che la Germania tenga ancora fermo il timone della nave europea su una politica di rigore di bilancio, anche se questa rotta ci sta giugulando. Noi non ci meritiamo Keynes, che operava su un sostrato etico per noi oggi inimmaginabile, ma la prassi di quegli antichi medici, i quali, davanti all’incalzare del morbo, non potevano far altro che “salassare et purgare”.

Nell’attesa di leggerla ancora, la ringrazio molto per il suo per me utilissimo contributo.

Cordiali saluti.

Le due scuole


Ripubblico un intervento di cinque anni fa, ahinoi ancora attuale.

marzo 2008

Nella tempesta di tante riforme mancate o attuate solo a metà, la scuola sembra avere smarrito la sua missione. Sembra che continui a funzionare per forza d’inerzia e a muoversi per sobbalzi improvvisi, senza poter costruire strategie di lungo respiro. Per fortuna può ancora contare sul lavoro qualificato di tanti insegnanti preparati e motivati, che desiderano e sanno far bene il loro meraviglioso mestiere e di tanti funzionari e impiegati amministrativi e ausiliari che,
nonostante il consistente aumento dei carichi di lavoro e la corrispettiva diminuzione delle risorse di personale, riescono comunque a far funzionare bene la macchina organizzativa. Ma se ci chiediamo dove la scuola stia concretamente andando credo che pochi oggi saprebbero dare una risposta precisa e sicura. Dopo l’ultima grande, vera riforma che ha investito il
sistema scolastico, cambiandolo alla radice, cioè a dire l’istituzione della scuola media unica agli inizi degli anni ’60, ci accorgiamo come, di fronte alle rapide e travolgenti trasformazioni che hanno fatto dell’Italia, da povero paese uscito in rovina dalla guerra una potenza industriale ed economica di primo rango, la scuola abbia reagito solo sintomaticamente,
cercando affannosamente di tenere il passo delle dinamiche sociali, “sperimentando” molto e a lungo, agendo su segmenti anche importanti del percorso formativo, senza tuttavia mutare in profondità le sue strutture, senza cioè passare attraverso un efficace e durevole mutamento di sistema.
Anche l’introduzione, formalmente rivoluzionaria, dell’autonomia (Legge 59/97 art. 21) si è tradotta nei fatti di questo decennio trascorso in un’altra grande incompiuta. Parafrasando l’Evangelista, si è continuato cioè a mettere il vino nuovo in un otre vecchio, con le conseguenze che si possono immaginare. Così, si sono sferrate poderose picconate all’edificio
costruito genialmente da Giovanni Gentile come strumento di selezione e di educazione delle élites, senza però riuscire a demolirlo, ma al contrario aggiungendovi – spesso non solo metaforicamente – superfetazioni abusive, improbabili superattici, oscuri sottotetti, verande di cartone, per ospitare una popolazione non solo smisuratamente aumentata di numero, ma anche non più in sintonia con il modello sociale prima dominante.

Qui mi pare emerga un tratto tipico di tanta parte del pensiero politico italiano, cioè a dire quello che produce e pratica la
“doppia verità”, l’una, a beneficio delle masse, retorica e predicatoria della assoluta centralità e importanza della scuola nello sviluppo delle nuove generazioni e nella creazione dell’unica ricchezza che possediamo, ovvero la forza dell’ingegno, l’altra, a beneficio di chi governa, ben più concreta che ha fatto e fa della scuola un luogo in cui trovare facile soddisfacimento di grandi clientele e potentati corporativi e nello stesso tempo la valvola di sfogo di un ceto
intellettuale a funzione sociale diffusa cresciuto senza criterio e senza alcun progetto. In un paese come il nostro, ben poco aduso a rivoluzioni e sostanzialmente alieno da ogni radicalismo, ha sempre e comunque avuto la meglio la ricerca del compromesso, la sistematica conciliazione degli opposti, il “quieta non movere”. Ma ciò non è stato senza danni,
anche gravi, per il nostro intero sistema di istruzione e, a fortori, per la società nel suo insieme. Che cosa è dunque la scuola? Se ci si volesse rifare all’etimologia del termine, la scuola dovrebbe essere scholè, otium, separazione dal tumulto quotidiano, momento di studio, di crescita e di riflessione disinteressata sulla storia individuale e collettiva, di trasmissione del deposito di tradizioni, cultura e identità di un popolo. E’ facile misurare oggi la distanza tra la nostra realtà e questa definizione. Nell’esperienza di tutti la scuola è diventata proprio il suo opposto, ovvero ascholìa, negotium, invasa com’è da mille pratiche, da mille “stimoli” esterni, che, tuttavia, abitando nello stesso pur nobile edificio in rovina di cui si diceva, spesso non riescono ad acquisire dignità, organicità ed efficacia. Per questo la prospettiva si fa inevitabilmente schizofrenica, bilocata: la “vecchia scuola” che reclama i suoi intoccabili “diritti”, in termini di materie, interrogazioni, voti, bocciature, cattedre, classi di concorso convive con la “nuova scuola” che non si sottrae alle lusinghe del mondo esterno e che finisce per aggiungere ad essa, con il pericolo di soffocarla, una congerie di variegate attività, tutte di
per sé validissime, ma che in molti casi accentuano la disintegrazione piuttosto che creare un progetto educativo e culturale omogeneo.

Di più: una scuola siffatta, nata per essere sempre più democratica e aperta a tutti, sta diventando invece sempre più classista e preclusiva, poiché, avendo perduto la sua fisionomia e la sua “missione” non riesce più a funzionare da “ascensore sociale”, cioè a dire ad offrire validi strumenti di emancipazione anche a coloro i quali, in condizioni sociali di svantaggio, non possono che trovare nella scuola lo strumento principe di riscatto. E allora: dobbiamo rassegnarci
all’idea di scuola-contenitore, di scuola-supermarket, in cui ciascun cliente afferra dagli scaffali il prodotto che desidera, attratto dalla confezione o dal prezzo, senza preoccuparsi della coerenza e della funzionalità dei propri acquisti? Oppure è ancora possibile tentare di costruire un edificio davvero nuovo e funzionale, che non dimentichi il passato, ma tenga nel
contempo conto del presente e del futuro? Personalmente credo che sia possibile purché si facciano delle scelte “radicali”, cioè a dire, purché:
– Non si dimentichi che la scuola è anche e soprattutto il luogo in cui “una mente che apprende e una mente che insegna diventano una mente che conosce”, secondo l’insuperata definizione di Giovanni Gentile, che coglie la centralità del rapporto essenzialissimo e sempre nuovo tra studente e insegnante nel farsi della lezione in classe;

– Si metta la sordina al marketing pedagogico di cui la scuola è stata oggetto e vittima in questi ultimi anni, invasa e corrotta da “mode” culturali rapidamente transeunti;

– Si diano risorse certe e reali per l’attuazione della “vera” autonomia, capace di incidere sulla didattica, sulla struttura dei curricula e delle cattedre e sugli organici, non ridotta a mero terreno edificabile per la costruzione di giganteschi progettifici;

– Si restituisca ai docenti il loro status naturale di liberi professionisti della conoscenza, sottraendoli al fardello di un’asfissiante burocrazia cartacea;

– Si accordi a tutto il suo personale il riconoscimento economico che merita l’esercizio di una funzione di vitale importanza per il futuro del paese, a fronte di un efficace controllo della qualità del servizio erogato, con la creazione di un organismo di valutazione che risponda solo al Parlamento, sul modello dell’OFSTED britannico;

– Si riformino gli Organi Collegiali, nel senso di un loro snellimento e di un autentico accrescimento del loro peso decisionale nella gestione di “tutti” gli aspetti della vita delle scuole;

– Si dia vita ad un sistema nazionale pubblico di istruzione in cui potranno confluire scuole di stato e scuole paritarie, le une e le altre sottoposte a eguali, puntuali e rigorose verifiche sul rispetto e sul raggiungimento di standard e di obiettivi programmatici validi su tutto il territorio italiano e non consentendo più scorciatoie che, sotto il comodo ombrello
dell’autonomia, si sono tradotte in questi anni in degrado e disuguaglianze crescenti tra le diverse regioni;

– Si abolisca il valore legale del titolo di studio, sostituendolo con un sistema di certificazione delle conoscenze e delle comptenze effettivamente acquisite, secondo modelli già in vigore in Europa e, peraltro, accolti in linea di principio all’interno delle nuove disposizioni in merito all’obbligo di istruzione.

Cocomeri e fichi d’India


L’articolo comparso oggi su “Il Sole 24 Ore” a firma di Alberto Orioli, “La multinazionale della partitocrazia”, torna su una questione che sembra sopita, nascosta tra i fumi di un dibattito artefatto, alimentato dallo spettacolo-sceneggiata  dei tanti, troppi talk-show televisivi, ovvero quella niente affatto demagogica e assai complessa della riduzione dei costi della politica.

Se la si confina nella sguaiataggine delle piazze (vedi “Quinta Colonna”), nelle invettive plebee contro la Città Proibita, che pure si è venuta a creare nel centro di Roma negli ultimi lustri, con i suoi cento palazzi del potere, si rischia di dire solo parte della verità e, cosa più grave, di spuntare armi preziose per promuovere il cambiamento, offrendole invece a chi grida, appunto, “demagogia, demagogia!” e favorisce per ciò stesso lo status quo.

L’argomento è tale che merita una considerazione lucida e non emotiva, quella cioè dovuta a un sistema che non è semplicemente “peccaminoso” e “corrotto”, ma che ha “funzionato” per anni, impiegando un numero molto elevato di persone. Basti pensare che, riferendosi alle sole società partecipate, Orioli parla di una vera e propria grande azienda, con trecentomila dipendenti e un fatturato di 15 miliardi di Euro.

In aggiunta a questo dato, già di per sé impressionante, vorrei richiamare come esemplare lo studio pubblicato sul sito dell’Istituto Bruno Leoni www.brunoleoni.it/  da Pietro Monsurrò il 22 marzo di quest’anno, a cui rimando. Ne riferisco qualche punto soltanto:

  1. – L’Italia spende per la politica 39 miliardi €/anno, contro i 25 della pur statalista Francia, i 24 del Regno Unito, i 18 della Spagna;
  2. – Il costo della politica pro-capite per gli italiani è di 200 €/annui maggiore di quello che pagano gli altri cittadini europei di stati paragonabili al nostro;
  3. – Dal 1990 la spesa per la politica in Italia è raddoppiata;
  4. – Disaggregando i dati e facendo solo qualche esempio:

–        il Parlamento costa 1,6 miliardi €/annui, contro gli 0,9 della Francia e gli 0,6 del Regno Unito;

–        il Quirinale costa 349 milioni €/annui, l’Eliseo 119 € annui:

–        gli amministratori locali (regioni, province, comuni) costano 1,6 miliardi €/annui, con fortissime differenze tra nord e sud (es. la Toscana, con 3,7 m.ni di abitanti spende 25,5 m.ni €/annui, la Calabria, 2 m.ni di abitanti, spende 50, 1 m.ni €/annui);

–        il finanziamento ai partiti, formalmente abolito da un referendum popolare, si aggira oggi attorno ai 100 m.ni €/annui;

–         le auto blu (7.000) e grigie (52.000), per un totale di poco più di 59.000 mezzi, esclusi i mezzi delle forze di polizia, le targhe speciali, e i circa 100 mezzi del Parlamento, del Quirinale e della Corte Costituzionale, hanno avuto un costo di 1,1 miliardi €/annui nel 2011 (anche qui con forti divari regionali: in Sicilia, ad esempio, si concentra il 15% degli autisti, per una popolazione che è l’8,3% di quella nazionale);

–        Riproporzionando la spesa dell’Italia nel settore e riportandola ai livelli delle altre nazioni europee simili alla nostra, si potrebbero ottenere risparmi per 16 miliardi €/annui.

Se si pensa ai tormenti dell’attuale governo per trovare 1, 2 miliardi di Euro di copertura per evitare l’aumento della tassazione!

La stessa enormità delle cifre e l’estrema articolazione del sistema, che in tutti questi anni è servito ad amministrare (spesso assai male) il Paese, ma anche a creare posti di lavoro, per quanto surrettizi, a soddisfare clientele politiche nazionali e locali, a narcotizzare potenziali conflitti e drammi sociali (specie nel meridione), spiegano la difficoltà e la scarsa volontà di intervenire manifestate da questo e dagli altri governi che lo hanno preceduto. L’abolizione mancata delle province e il balbettio continuo sul finanziamento pubblico dei partiti, sta lì a dimostrarlo.

Si tratta infatti non di operare semplici tagli lineari di spesa, ma di smontare un’intera struttura economica, che impiega, secondo dati UIL, direttamente o indirettamente, circa un milione di persone, Purtroppo (?) però non c’è più tempo da perdere; non potendo più operare sul deficit spending, dobbiamo agire in fretta.

Se non vogliamo che l’Italia muoia soffocata dalle tasse è necessario semplificare e accorciare la filiera, lunga e spesso labirintica, che conduce dalla deliberazione politica all’esecuzione del provvedimento, una filiera ricca di “occasioni” per i partiti, ma che non è più economicamente sostenibile.

Si tratta, finalmente, di iniziare a sbucciare il fico d’India della spesa per la politica, operazione certo ben più pericolosa e faticosa di quella di tagliare le grosse e succose fette del cocomero del mondo del lavoro e della spesa sociale.

 

Alitalia? Io non c’entro!


Il discorso che Enrico Letta ha fatto per giustificare il nuovo salvataggio a spese, seppur indirette, del contribuente, di Alitalia assume dei toni metafisici, surreali. E’ pur vero che siamo la patria di De Chirico e di Alberto Savinio!

Mi riferisco in particolare alla locuzione “la situazione attuale non è stata determinata da nostre responsabilità”. Sottotesto: “visto che siamo al governo da pochi mesi.”

Pochi mesi? Non c’è  paese europeo con una classe dirigente tanto stabile e inamovibile come la nostra. Nei fatidici anni ’90 l’Inghilterra ha conosciuto la discontinuità forte di Tony Blair,  dopo l’era thatcheriana; la Germania ha mandato a casa l’unificatore Kohl, per scegliere Schroeder, il socialista che si è accollato la responsabilità gravosa ma ineluttabile di riformare il sistema produttivo e il welfare tedesco, per poi scegliere di nuovo il partito conservatore di Angela Merkel; la Francia da Mitterand è passata a Chirac e poi a Sarkozy, fino a scegliere Hollande; persino la Spagna è passata dai conservatori ai socialisti e ancora ai conservatori e poi di nuovo ai socialisti.

E noi? Sono più di vent’anni che abbiamo a che fare con le stesse facce, che ruotano, si compongono e si decompongono, ma non mollano la presa. Lo stesso “giovane” Letta, non era forse in Parlamento quando la nostra compagnia di bandiera si inabissava (anche prima del fatale 2008 berlusconiano!), non si è accorto mai di nulla? Rammento a un cattolico come lui che, secondo il vecchio catechismo, si pecca in opere, ma anche in omissioni. Il Parlamento, e in particolare l’opposizione, ha esercitato in questi anni il dovuto controllo sugli atti di governo?

La questione è che “opposizione” e “responsabilità” sono da tempo vane parole nel mondo della politica italiana, abituata com’è agli agi del consociativismo (occorre forse ricordare le scandalose privatizzazioni all’italiana, attuate da destra e sinistra concordi?), a sopire i conflitti, ad agire sui sintomi, ma non sulle cause dei mali, a cercare la stabilità nel mantenimento dello status quo.

La questione è che il vero eroe, il modello cui si ispirano i nostri reggitori è il grande Alberto Sordi, quando dice  “a me m’ha rovinato la guera” oppure “io c’ho avuto a’ malatia”, non certo il virgiliano   Niso che esclamava “me, me adsum qui feci”.

Regioni: finzioni statistiche


Otto anni fa, sul “Il Riformista” del 18 novembre, Francesco Cundari scriveva un intelligente articolo che riconduceva nelle sue giuste dimensioni storiche e culturali  il discorso sul federalismo e le autonomie, allora molto alla moda su entrambi i fronti dello schieramento politico italiano, che facevano a gara a chi era più localista.

Dico “facevano” perché oggi quegli entusiasmi mi paiono fortemente raffreddati, a causa della crisi economica e soprattutto politica che stiamo vivendo (“crisi”, non dimentichiamolo, è vox media, con un’accezione non necessariamente negativa, ma che sta a indicare un momento,  uno snodo da cui si guarda “criticamente” il passato per ripartire verso il futuro su nuove basi, evitando, si spera, gli errori commessi in precedenza) e che, auspice un’Europa preoccupata solo della contabilità degli Stati, si sta affrontando con un draconiano e lineare taglio della spesa pubblica, senza alcuna visione strategica.

Se, dunque, vogliamo che la crisi produca risultati che diano speranze e prospettive concrete ai nostri figli non dobbiamo avere tabù, ma affrontare con decisione una radicale riforma dell’architettura della Repubblica, così come si è venuta a delineare negli ultimi vent’anni.

Un anno fa, in una lettera al Prof. Giovanni Sabbatucci, qui riportata nella rubrica delle “Lettere”, assieme alla risposta del Destinatario, esprimevo le mie perplessità sull’abolizione delle province e il permanere invece delle regioni, sostenendone l’artificiosità storica.

Di fronte al sistematico affondamento dello stato sociale, al balbettio di un governo che annuncia molto e fa molto poco (altro che “decreto del fare!”), stretto com’è nella tenaglia di spinte e consorterie contrapposte e inconciliabili, ritengo che questo ragionamento vada ripreso al più presto.

Rifacendomi all’articolo di Cundari, cito l’intervento di Francesco Saverio Nitti all’Assemblea Costituente in 6 giugno del 1947:

“[…] Così si è giunti al punto ormai che abbiamo l’incubo delle autonomie regionali. Nessuno mi sa spiegare e nessuno ha spiegato perché si vogliono avere regioni autonome. […] In  Italia, un uomo eminente, veramente competente in materia, Luigi Bodio, milanese, grande statista, fondatore della statistica italiana, diceva che ‘le regioni sono una finzione statistica, per raggruppare alcune province e alcuni territori in quadri statistici. La regione non è mai esistita, essa è stata finora una finzione statistica. […]’  Studiate a fondo Mazzini, Cattaneo, studiate Ferrari, non troverete mai idee di autonomia regionale. Come questo fungo del disordine è venuto fuori? Non si può dire.”

Sempre dalla stessa fonte, Benedetto Croce (Scritti e discorsi politici, 193-47):

“[…] Ieri ho udito parlare sinanche di autonomia ‘umbra’ che non riesco a figurarmi in nessun modo col riportarmi alla storia di quella regione, la quale non può unificarsi neppure nella dolce persona del poverello d’Assisi. […] Nella mia Napoli, che era la capitale del più grande e antico regno italiano, nessuno, che io sappia, parla di autonomia. Vorremmo stimolarla a parlarne per imitazione? Tutto ciò non mi pare né utile, né prudente, e molto meno urgente.”

E’ dunque, questo sì, urgente rivedere (abolire?) l’istituto regionale, vorace centro di spesa pubblica, senza evidenti vantaggi per il cittadino (basti confrontare i bilanci della Sanità un tempo centralizzata e quelli della Sanità regionalizzata, per non parlare poi della formazione professionale e più in generale dell’istruzione, affidata dal Titolo V della Costituzione, sciaguratamente “novellato”, alle regioni, che si sono mostrate, nel merito del tutto incapaci e incompetenti), mero serbatoio di spartizione partitica del potere e, quindi,di corruzione, incapace persino di investire le risorse, spesso molto generose, messe a disposizione ( la questione dei fondi europei è lì a dimostrarlo).

Come dice il Prof. Domenico Fisichella nel saggio “La questione nazionale” (Roma, 2008), la storia d’Italia è storia di uno stato unitario “e se la Germania si configura federale [lo fa] in ragione del precedente assetto confederale.” (p. 20). E la storia non è aggirabile dalla bassa cucina di una politica attenta in primis al mantenimento di se stessa, pena il decadimento generale dello Stato.

Aumento delle accise, aumento dell’IVA, blocco della rivalutazione delle pensioni cosiddette “ricche”, (s)vendita degli immobili di proprietà pubblica, tagli lineari alle spese dei Ministeri, IMU sulla prima casa, e così via tassando: a tutto si sta pensando fuorché ad abbattere una spesa regionale che è abnorme e inutile, fonte di appesantimenti burocratici e fiscali per imprese e cittadini.

L’artificiosità dell’istituto, che, come abbiamo visto, ha profonde radici nella nostra storia. è davanti agli occhi di tutti e ben pochi sono i cittadini che saprebbero dire in quale aspetto della loro esistenza sentano a loro prossima e utile la regione.

Lettera al Prof. Giovanni Sabbatucci sul regionalismo


29 settembre 2012

Egregio Professore Sabbatucci,

ho letto la sua bella analisi su “Il Messaggero” di oggi. La condivido per la giustezza e l’equilibrio delle idee e delle proposte. Mi piacerebbe che lei facesse oggetto di una sua prossima riflessione quanto, sinteticamente, qui le elenco:

– Oggi si sta vivendo in un equivoco che i mass media non contribuiscono a sciogliere: non è la patologia (modello Fiorito) che va curata e sconfitta, ma la normalità: ieri Bersani, onest’uomo penso, ha fatto un’affermazione all’apparenza innocente, ma sintomatica dell’incoscienza in cui si trova anche la cosiddetta parte sana della politica: “Noi con i soldi del contributo non ci compriamo le ostriche pelose, ma i manifesti.” Non pensa Bersani che, ostriche o manifesti che siano, quel tipo di spese non debbano ricadere sul contribuente, ma su chi ha uno stipendio mensile netto che è cinque volte il mio, tre volte il suo (credo), dieci volte quello di un professore di liceo?

– Posso vantare un’inutile primazia: il mio primo voto è stato per le prime regionali. Allora ventunenne, militavo (non ancora iscritto) nel PCI ed ebbi occasione di dire in sezione che l’attuazione delle regioni in un paese moralmente malato come il nostro, non avrebbe esteso capillarmente la democrazia, bensì l’allora già grave morbo della corruzione e del clientelismo. Le lascio immaginare le reazioni;

–  Grande errore l’abolizione delle province. Lo dico ad un illustre storico quale lei è: l’Italia ha una tradizione comunale fortissima, ma ne ha anche una provinciale altrettanto solida, anche se più recente. Non ha invece alcuna tradizione regionale. Alcune regioni sono affatto fittizie (vedi Lazio, costruito a posteriori rubando pezzi al vecchio Regno delle Due Sicilie, all’Abruzzo ulteriore e unendoli alla Tuscia. Se si volesse radicare storicamente il federalismo, si dovrebbe tornare agli antichi stati italiani, ricostituendo l’unità territoriale del regno borbonico, il Lombardo-Veneto, il Piemonte-Liguria-Sardegna, ecc., ovvero tutte quelle unità che, nella costruzione dello stato unitario e centralistico, sono state a bella posta disintegrate.

– Parlo per esperienza personale: la Regione è solo uno snodo per la distribuzione delle risorse e per l’intermediazione (malata) della politique politicienne, limitandosi ad appaltare ad altri ciò che sarebbe suo compito amministrare (il caso dell’istruzione e della formazione è lampante. Se vanno a scoperchiare quella pentola ….). In conclusione: non sarebbe opportuno pensare ad una conservazione delle province, istituto più vicino ai cittadini,  e a una abolizione o a un fortissimo ridimensionamento dell’istituto regionale? Ho riletto in questi giorni “La questione nazionale” di Domenico Fisichella. Illuminante.

Mi scusi per il tempo che le ho sottratto e un augurio di buon lavoro.

Risponde il Prof. Sabbatucci:

Caro Salone, le questioni che mi pone meriterebbero una lunghissima risposta. Mi limito a poche osservazioni. Sul punto 1 sono d’accordo: il problema non sono le ostriche, ovvero la malagestione dei fondi, ma il meccanismo con cui i fondi sono erogati, che sembra fatto per promuovere quegli abusi. Fermo restando che, per i motivi che ho detto, una qualche forma di finanziamento pubblico deve sussistere.
2) Le regioni sarebbero dovute nascere assieme alla costituzione che le prevedeva. Ne sarebbe uscito fuori uno Stato fondato ab origine sulle autonomie (e sulla responsabilità finanziaria) degli enti territoriali. Inserite in un sistema nato e vissuto centralista, e dominato dai partiti nazionali, hanno prodotto i guasti che sappiamo, aggravati, ma non creati, dalla sciagurata riforma del titolo V.
3) Non sono d’accordo sulle province. Sono l’istituzione caratterizzante di uno Stato centralizzato, di modello napoleonico, e sono state disegnate a tavolino, senza alcun legame con storia e tradizioni. Se viene meno quel modello, devono scomparire anche le province. Certo, anche le regioni sono in parte fittizie (qualsiasi suddivisione politico-amministrativa lo è), ma corrispondono a denominazioni storiche, in parte coincidenti con i vecchi Stati, come lo sono i laender tedeschi, e sono dotate di una “taglia” ragionevole (salvo il Molise, che andrebbe subito cancellato: la Valle d’Aosta non si può). Poi bisogna farle funzionare bene, ma questo è un altro discorso.
Sul quarto punto, eccetto le province, sono d’accordo con lei.
Grazie per l’attenzione e saluti cordiali, Giovanni Sabbatucci

Lettera a Mons. Ravasi sul paganesimo


Gentile Professor Ravasi,

3 marzo 2010

le scrivo a proposito del suo articolo sui “Pagani del terzo millennio” (Il Sole della domenica, 22 febbraio 2010). Le chiedo se non sia venuto il tempo di sconfessare con maggior vigore la vulgata che vede il paganesimo come mera, arcaica manifestazione culturale in senso etno-antropologico o (nella peggiore delle interpretazioni) come espressione del degrado del sentimento religioso, da collegarsi a superstizioni, riti magici e così via.  Non è piuttosto il caso di rammentare che i “pagani” sono stati e sono i protagonisti di splendide stagioni culturali, quali quella greco-romana e induista, che tra loro si annoverano Platone, Isocrate, Aristotele, Cicerone, Virgilio, tanto per fare alcuni nomi?

Il fatto è che bisognerebbe premettere che la religione pagana non è una religione assimilabile alle altre, cosiddette “del libro” e che di religioni in realtà ce n’è una sola, la quale poi si declina e coniuga in infiniti modi e tempi, perché infinito è il Mistero che ci contiene tutti.

Perché non si ricorda la voce di Simmaco, nella sua straordinaria Relatio Tertia  per la restituzione dell’altare della Vittoria al Senato di Roma, ultima, luminosa voce del paganesimo morente, contrapposto al duro discorso fondamentalista di Ambrogio,  uno itinere non potest perveniri ad tam grande secretum?

E’ quello il paganesimo autentico, “gentile”, cioè a dire non dogmatico, non metafisico, aperto alle verità dell’altro, che coglie la presenza del divino solo nel suo rapporto con l’uomo.

Paolo, l’inventore del cristianesimo, non è forse ancora  un “gentile” da questo punto di vista? Forse che la via cristiana al Mistero non ha riscattato – ed è stata questa la sua forza – la presenza corporea di Dio nella Natura dell’Uomo? Parole magnifiche quelle scritte da Benedetto XVI su logos e cristianesimo. Peccato che poi il suo dia-logos con chi cerca altrove e con altri mezzi torni ad affermare costantemente il punto di vista dogmatico e a tratti sprezzante di Ambrogio, il quale, di fronte all’apertura di Simmaco risponde: Quod vos ignoratis id nos dei voce cognovimus (Ep.18)

Le maschere della crisi


Con la crisi in atto del governo delle Larghe Intese siamo alla solita “Commedia alla antica italiana”, genere letterario di  illustre e venerabile  tradizione, ma che non vorremmo veder messo in scena dalle parti di Montecitorio e dintorni. Vediamone la trama e i personaggi:

–          All’indomani delle celebri elezioni “non vinte” dal PD (mai litote fu più audace!) e di fronte al pericolo di eversione rappresentato dal 25% di elettorato M5S (un cittadino italiano su quattro è dunque un potenziale terrorista: mamma mia, altro che Brigate Rosse!) si forma il governo PD-PDL e soci di minoranza, nientepopodimeno che “per salvare l’Italia”;

–          In realtà si vuole mascherare di ideale un intento duplice e che si ritiene inconfessabile: il governo apparentemente contro natura PD-PDL deve salvare Berlusconi dalla giustizia e conservare l’equilibrio  diarchico che ha governato l’Italia almeno dalla fine degli anni ’70 ai giorni nostri, in barba a Mani Pulite, alla favola della Seconda Repubblica, non importa sotto quale etichetta o sigla, una diarchia “destrasinistra” che ha un nome, consociativismo, diffuso capillarmente in tutta la società italiana e non per sola colpa dei “politici”, ma anche di una società civile passiva, di un’imprenditoria assai poco propensa al rischio, di un sindacato troppo spesso conservatore e corporativo, di una cinica, lucida mancanza di prospettive future, di un’intrinseca, oserei dire, filosofica tendenza al precariato, nel senso etimologico della parola, che definisce chi prega per ottenere, da suddito e non da cittadino;

–          tale atteggiamento ostativo di ogni cambiamento vero ha prodotto una democrazia costantemente agonizzante, solo formale, con un professionismo politico  ipertrofico, di dimensioni ineguagliate nel mondo occidentale, degno forse del defunto regime sovietico in quanto a privilegi, conservatorismo,  indolenza, ignoranza (i costi della politica sono anche questi!);

–          dunque, al di là degli abbondanti orpelli retorici, il governo PD-PDL ha risposto all’esigenza autentica e potente di conservazione (semper idem, avrebbe detto il cardinale Ottaviani!) di un sistema che aborre gli strappi e ogni vera competizione tra opposti schieramenti (che non sia quella apparecchiata dai vari talk-show, espressioni di mera democrazia circense). Ma perché non dirlo?

–          Comprendo  l’ira di Berlusconi: perché non dare allora compimento anche alla seconda parte del programma,  ovvero, oltre al proclamato salvataggio dell’Italia, anche a quello del Cavaliere, il quale, a buon diritto, rivendica tutto ciò come uno dei pilastri (seppure ipogei) dell’accordo PD-PDL? Sicuramente non ci sarebbe stata la crisi del pur esangue governo Letta.

–           A meno che il potere diarchico consociativo, in tutte le sue innumerevoli articolazioni, non abbia ritenuto che, data anche l’evidente senescenza del personaggio, fosse necessario cambiare alla svelta per fare restare tutto come prima .

–          Naturalmente tutto resterà come prima solo nei luoghi in cui si prendono le vere decisioni. E tra questi luoghi non vi è un Parlamento formato da liberti del principe, non la società italiana, sempre più ingiusta e diseguale, piagata da una crisi economica sempre più grave, resa incapace di reagire da decenni di narcosi culturale di massa (e non parlo solo dei canali commerciali berlusconiani) e destinata a un declino ormai ineluttabile, o meglio, a naufragare nel mondo globalizzato, davvero “nave sanza nocchiero in gran tempesta” .  Il fatto è che i nocchieri, un po’ come Schettino,  sono scesi tutti a terra, a godersi la vita nei loro fortilizi dorati, assieme ai propri clienti.  Gli altri? Si salvi chi può.

In margine a un articolo di Moses Naim


21 ottobre 2009

Da meditare, l’ articolo di Moises Naim, comparso sul “Il Sole 24 Ore” di domenica 18 ottobre scorso e dal titolo “Educazione disastrata la peggiore delle crisi”.

In esso si tratta “dell’altra crisi mondiale”, quella a cui si presta poca attenzione e molte dichiarazioni di principio e che si manifesta in una generale perdita di efficacia dei sistemi scolastici ed educativi dell’occidente. Parlando degli Stati Uniti, Naim fa bene a sottolineare che non si tratta di accrescere gli investimenti nel settore, dato che nel venticinquennio 1980-2005 tali investimenti sono aumentati di oltre il 70% (sempre negli USA) senza per questo riuscire ad arrestare il declino nell’apprendimento delle conoscenze di base in tutti i settori disciplinari.

In Europa, addirittura, a fronte di un aumento della spesa per l’istruzione si è rilevato, tra il 2000 e il 2006, un declino della literacy e della numeracy (leggere, scrivere e far di conto, per dirla in maniera rozza, ma più comprensibile) in numerosi paesi ricchi (Finlandia esclusa).

Nel nostro continente c’è poi un elemento aggravante: mentre negli Stati Uniti il livello superiore dell’istruzione, quello universitario, resta eccellente, da noi in Europa anche questo declina (tra le prime 100 al mondo vi sono solo tre università francesi).

Stesso quadro nei paesi, come si diceva un tempo, “in via di sviluppo”, nonostante le risorse proporzionalmente ingenti profuse. E tutto ciò mentre in tutte le sedi si indica l’istruzione come l’unico argine all’emarginazione, alla violenza urbana, alla povertà, alla corruzione. Non c’è candidato politico in tutto il globo che non dichiari solennemente di voler fare di più – con l’unica eccezione forse del primo ministro di Singapore, citato da Naim, dove a minori investimenti in campo scolastico corrispondono migliori risultati.

Le soluzioni proposte e attuate sono e sono state le più numerose e le più diverse: più computers e laboratori nelle scuole, meno studenti per classe, docenti meglio pagati, autonomia degli istituti o centralizzazione del sistema, aumento o riduzione del tempo-scuola e così via. I risultati appaiono comunque e dovunque deludenti.

Come “deludente” è la chiusa dell’articolo, che non fornisce alcuna prospettiva, se non quella di “pregare che le soluzioni alla crisi finanziaria siano più efficaci di quelle che il mondo ha finora proposto per la sua crisi educativa.”

Il contributo di Moses Naim resta comunque interessante perché toglie il problema della scuola e dell’educazione delle giovani generazioni dal ristretto orizzonte nazionale, su cui lo schiaccia spesso la minuta cronaca politica, per proiettarlo a scala globale.

In Italia le cose non vanno, ma non siamo soli a condividere questa grave criticità. Mal comune mezzo gaudio?

Sarebbe stato però doveroso cercare almeno di ipotizzare le ragioni di questo smacco planetario.

Tento una riflessione personale, molto schematica:

  1. – quanto sta accadendo ai sistemi educativi occidentali non è accidentale, ma interno ad una logica di mercato, egemone a danno della politica soprattutto in quest’ultimo quarto di secolo;
  2. – l’abbassamento generale dei livelli dell’istruzione, nonostante gli alti lai che si levano un po’ dappertutto, è perfettamente coerente con gli esiti che ha assunto il fenomeno grandioso dell’alfabetizzazione di massa, la scommessa parzialmente perduta da chi ne voleva fare un fulcro di emancipazione e non una mera dilatazione della platea di potenziali consumatori;
  3. – i consumatori in quanto tali non hanno bisogno di una cultura critica, ma solo di quel tanto che serve loro per leggere le etichette dei prodotti sui banchi dei supermercati, per interpretare – non sub limine ! – i messaggi pubblicitari, per godere degli spettacoli di intrattenimento televisivi;
  4. –la scuola di massa così realizzata non ha intaccato il meccanismo di formazione delle élites ; al contrario, per molti versi lo ha reso meno democratico in quanto una scuola mediocre, pur se in linea di principio estesa a tutti, fa male a chi vuole crescere e raggiungere status diversi e migliori rispetto alle posizioni di partenza, mentre favorisce l’immobilismo sociale e la selezione per censo.
  5. – i paesi più avanzati sembrano puntare essenzialmente a creare centri di eccellenza e di iperspecializzazione (vedi le università statunitensi, “nutrite” dalle élites studentesche di tutto il mondo);
  6. – le élites, ormai da tempo, non iniziano più a formarsi nel segmento superiore dell’istruzione media, come accadeva con noi un tempo con i licei classico e scientifico. Quel segmento è diventato un modello “generalista”,  un contenitore incaricato di “accogliere” i giovani, tenendoli lontani da un sano principio di realtà ed educandoli ad una virtualità che rischia di essere la loro dimensione esistenziale prevalente;
  7. –Un’Europa che è rimasta centro economico ma che sta diventando periferia politica del globo, difficilmente riuscirà a trovare nel medio periodo le risorse per reagire. Come è accaduto in altre epoche, il fiume della storia sta passando altrove – Cina, India, America del sud.
  8. – Alla scuola italiana ed europea non resta che ritrovare il suo centro nell’attenzione alle persone – che non sono “risorse umane”! – che animano il dialogo educativo, abbandonando ogni salvifica speranza in “Grandi Riforme” di sistema.

Ricominciando da qui, forse, la scuola potrà contribuire a ritessere la tela di una crescita che non dimentichi il perché del progresso.

Lettera a Umberto Ranieri


4 maggio 2011

Gentile onorevole Ranieri

ho letto su “Il Riformista” di oggi il suo bell’articolo, scritto a partire dal suo diario dell’89.

Siamo pressoché coetanei (20 novembre 48) e, seppure ad altri livelli di responsabilità e importanza, abbiamo vissuto la medesima esperienza, io come iscritto militante di base del PCI, che è sempre rimasto “ad di qua”, nella cosiddetta società civile (faccio il preside di liceo) lei all’interno dei quadri dirigenti del partito. Quando parlo di “medesima esperienza” intendo anche il luogo della mia militanza di base, tra quelli che, come lei dice bene, erano spregiativamente definiti “miglioristi”. A tal proposito, ricordo addirittura un episodio grottesco: nella nostra piccola sezione di partito, io e alcuni altri compagni che avevano espresso idee troppo contigue all’allora PSI di Craxi, fummo “interrogati” da un compagno della direzione romana. Non eravamo negli anni ’30, naturalmente!

Allo scoccare della svolta(!) occhettiana, dopo oltre un quindicennio, decisi di non riprendere più la tessera del “nuovo” PDS e da allora il mio rapporto con la politica si è deteriorato progressivamente (o è la politica tout court ad essersi deteriorata?), fino a giungere, per la prima volta nella mia vita, all’astensione dal voto nell’ultima tornata elettorale.

Mi permetta di dirle che lei è troppo indulgente nei confronti dei maggiori esponenti della “corrente” migliorista (immagino che il Giorgio da lei più volte citato sia Napolitano) e quindi anche con se stesso. In quel momento cruciale bisognava sbattere la porta, picchiare i pugni sul tavolo, far sentire la propria voce a tout prix;  e invece, come negli anni precedenti, si è preferito l’appeasement, nella speranza che dal pateracchio ordito da Achille Occhetto, un leader mediocre, uno tra i tanti furbi rincalzi cresciuti nell’ombra della nomeklatura del partito, culturalmente affatto inadeguato al momentum storico, si potesse ricavare qualcosa di buono.

E invece eccoci qui, con questo bel partito democratico, senza capo (con tutto il rispetto dell’ottimo Bersani) e presto anche senza coda.

Ma il disastro, come lei del resto ammette, nasce da molto prima dell’89.

E’ stato accettando che ancora negli anni ’80 i regimi dell’est fossero definiti regimi socialisti “con tratti illiberali”, è stato plaudendo a Berlinguer arrampicato sui cancelli della Fiat, è stato cedendo la direzione della politica economica al sindacato (vedi il referendum sulla scala mobile), è stato accettando di fatto la lottizzazione del potere a livello centrale (RAI) e locale (municipalizzate), è stato respingendo con albagia e ottusità la proposta craxiana della Sinistra Unita (ma già, ricordo bene che a quei tempi, dimostrare attenzione a Craxi era considerato un crimine), è stato accettando di stare sempre allineati e coperti  con il centro grigio che governava il partito – e qui Giorgio Napolitano non ha certo mai brillato per il coraggio, nonostante il luminoso esempio di un altro, ben più grande Giorgio – , che si è condannato alla fine un grande partito come è stato il PCI, che si sono perse le occasioni di un rinnovamento autentico dell’intera sinistra italiana.

Leggerò dunque con grande interesse – e anche con grande, immutata rabbia per il patrimonio di sacrifici di quelle tante persone che in silenzio e devozione hanno creduto al partito, giungendo in taluni casi da me testimoniati a versare per il tesseramento la metà della loro già magra pensione, buttato al vento – la seconda puntata del suo contributo, sperando di trovarvi anche il nome di Emanuele (Macaluso, naturalmente).

Con viva cordialità