Ragione e Giustizia: il partito di una sinistra che ritrova le sue radici


                                              

Sahra WAGENKNECHT, Die Selbstgerechten, Campus Verlag, Frankfurt/New York, 2022, p. 409 (ed.italiana, Contro la sinistra neoliberale, pref. V. Giacchè, trad. Alessandro de Lachenal, Giovanni Giri, Elisa Leonzio, Fazi Editore, 2022).

[with english version at the bottom]

[published also on http://www.insightweb.it/web/ april 2024]

Il libro risale ormai a due anni fa, ma ritengo importante riproporne qui la lettura, in vista delle elezioni europee, alle quali l’autrice si presenta candidata con il suo Bündnis (BSW, Bündnis – Vernunft und Gerechtigkeit), “Alleanza Sahra Wagenknecht” – Ragione e Giustizia), fondato appena all’inizio del 2024, ma che i sondaggi danno già al 6% di media nazionale – con una punta del 23% nel Land Sachsen-Anhalt – sopra Die Linke, ferma al 4,5% e ben oltre la liberal-democratica FDP (3%). BSW ha appena raggiunto 18.000 firme di sottoscrittori a fronte delle 4.000 necessarie per la presentazione della lista.

 In Italia è purtroppo ancora impossibile votare BSW, perché, come ha detto giustamente Lucio Caracciolo, le elezioni europee oggi servono solo a misurare i rapporti di forza interni ai partiti e alle coalizioni nazionali. Una sorta di mega sondaggio costosissimo (non per niente esperito con un sistema proporzionale puro). Così il PE fa e disfa maggioranze e legifera senza che le opinioni pubbliche dei singoli stati possano esercitare un effettivo controllo democratico, lasciando di conseguenza campo libero alle lobbies.

Chi è che in Italia conosce i nomi dei commissari europei lettoni o estoni, che pure concorrono a determinare le nostre politiche nazionali?

Né esiste da noi una formazione di sinistra apparentabile al BSW. Facendo un parallelo tra Italia e Germania, il PD occupa lo spazio politico della SPD, l’AVS corrisponde grosso modo ai Grüne e alla Linke tedesche, mentre la sinistra calendiana di “Azione” insiste in buona parte con l’area della Lifestyle Linke che è il bersaglio principale del libro della Wagenknecht. Resta il M5S, la cui collocazione non trova dei confini precisi, funzionando ancora da “vasca di laminazione” delle piene di malcontento. Ed è forse qui, in questo bacino magmatico che potrebbe innestarsi un movimento politico analogo al BSW, capace di dare senso e obiettivi a una forza che voglia coltivare una prospettiva progressista con solide fondamenta culturali.

Nata nella DDR nel 1969, filosofa ed economista, Sahra Wagenknecht ha militato nella Freie Deutsche Jugend, l’organizzazione giovanile della SED. Esponente di spicco della Linke, ne è fuoriuscita per evidenti dissensi sulla linea politica. Il libro, il cui titolo tedesco “Die Selbstgerechten” è stato tradotto nell’edizione italiana con una perifrasi, “Contro la sinistra neoliberale” e che invece personalmente tradurrei “I compiaciuti” (naturalmente di sé), sviluppa un’ampia riflessione sul ruolo che assumono oggi le forze politiche che si definiscono “neoliberali di sinistra”.

Un episodio narrato quasi all’inizio del testo riflette icasticamente il cuore della questione: ad agosto del 2020 la Knorr annunciò che la classica Zigeuner Sauce (“salsa alla zingara”)per evidenti motivi di correttezza politica, si sarebbe chiamata Paprikasauce Hungarische Art (“salsa alla paprika alla maniera ungherese”). Grande vittoria dei progressisti woke. Peccato che nel contempo ai 550 dipendenti dello stabilimento Knorr di Heilbronn venissero imposte condizioni di lavoro ben peggiori delle precedenti (sabato lavorativo, diminuzione del salario iniziale e blocco degli aumenti).

Ecco dunque all’opera quella che nel libro viene definita la “Lifestyle Linke” di cui si diceva poc’anzi, quella sinistra “gentrificata”, che non si spende più per la coesione sociale (Zusammenhalt), per il recupero del senso di una comune appartenenza (Gemeinsinn), per la riaffermazione del ruolo centrale dello Stato nazionale in settori-chiave quali, ad esempio, la sanità e la casa, ma che si è ritirata  nei suoi ben muniti fortilizi urbani (la “sinistra ZTL”, si direbbe in Italia) e ha finito per essere in buona sostanza il partito degli Akademiker, come li chiama l’autrice, dei ceti garantiti, concentrata sul fronte delle libertà individuali, del cosmopolitismo, dei diritti civili, delle gender theories, più sulla difesa delle diversities che non sulle questioni fondamentali della giustizia sociale e della lotta alle diseguaglianze.

Un tale atteggiamento ha lasciato campo libero alle destre “incolte”, populiste e nazionaliste, in crescita in tutta Europa (vedi da ultimo il Portogallo) non tanto per le soluzioni concrete che propongono quanto per la capacità che hanno di offrire un principium individuationis alle masse sempre più consistenti di poveri ed emarginati e spesso anche ai ceti piccoli e medi, che temono per il proprio futuro e si sentono minacciati di retrocessione nella scala sociale a causa degli sviluppi incontrollati della globalizzazione.  

Wagenknecht rivolge altresì critiche pungenti, ad esempio, ai protagonisti “apocalittici” dei Fridays for Future, che si mostrano affatto insensibili ai temi economico-sociali della transizione, ai Grüne, dogmatici detentori di un astratto “bene” del pianeta, ma soprattutto alla neo-socialdemocrazia alla Schröder che, con la sua “Agenda 2010” e lo Harz IV, ha smantellato lo stato sociale e precarizzato milioni di lavoratori.  

Eppure è davanti agli occhi di tutti il fatto che “le magnifiche sorti e progressive” della globalizzazione successiva alla deflagrazione del blocco sovietico si sono rivelate ben altre rispetto all’ ottimistica “fine della storia” e al trionfo planetario della libertà e della giustizia. Dopo poco più di una generazione non possiamo che constatare la scomparsa della politica, fagocitata da un’economia liberista senza più freni, la nascita di enormi e incontrollate potenze sovrastatuali e la crescita stratosferica delle diseguaglianze.

In Italia, ad esempio, dove i salari sono fermi dal 1991, il 5% della popolazione detiene il 46% della ricchezza totale; quarant’anni fa il rapporto tra salario operaio e retribuzione da dirigente era di 1: 45; nel 2020 il rapporto è passato a 1: 649.

Il Gegenentwurf (“controproposta”) di Wagenknecht è quella di una sinistra che riprenda a fare il suo mestiere, che torni in primis a parlare di lavoro e di Welfare e che riconquisti la rappresentanza dei ceti più deboli, degli operai e dei lavoratori dipendenti, come pure del capitale d’impresa, oggi gravemente minacciato da un liberismo sfrenato e dai processi incontrollati di finanziarizzazione economica, nonché dall’estendersi dei monopoli globali (i Big Five, almeno due dei quali, Apple e Microsoft,  hanno un bilancio molto superiore a quello dell’Italia).

Si parla spesso della nostra come di una “società aperta”, ma se è vero che sono crollate le mura delle vecchie poleis, è altrettanto vero che sono aumentate a dismisura le pareti interne, con la conseguente perdita del Gemeinsinn di cui parla l’autrice nel sottotitolo del libro. I diversi strati sociali non si “frequentano” più, l’alto incontra il basso solo quando se ne serve per attività sussidiarie e di basso profilo (consegna di pacchi e cibi, assistenza alla persona). È in atto inoltre un fenomeno di feudalizzazione dei rapporti sociali, in cui le famiglie di appartenenza determinano sempre più il futuro dei figli. Né va trascurato il fenomeno esteso a tutta l’area OCDE del cosiddetto lavoro povero: gli occupati aumentano di numero, ma la disponibilità di risorse diminuisce.

Take back control è il titolo di un paragrafo del libro (p. 295), lo slogan vittorioso della Brexit.

Accusata di aver fondato una sorta di AfD di sinistra, l’autrice sottolinea la necessità di reimpossessarsi del controllo democratico delle decisioni europee, oggi lasciate alle élites burocratiche brussellesi e alle lobbies degli shareholder e di conseguenza di difendere le specificità nazionali. Da qui la sua visione di una futura unione politica europea in un quadro non già federale (un unico grande superstato europeo), ma confederale, che, all’interno della futura entità statuale europea salvaguardi la fisionomia storico-politica dei singoli paesi, poiché gli stati nazionali sono gli unici in grado di produrre politiche autenticamente sociali.

Estranea al mainstream, Wagenknecht affronta lucidamente temi scottanti come quello legato all’immigrazione, che rischia di minare la coesione sociale e di fronte ai quali la Lifestyle Linke degli Akademiker tende ad assumere atteggiamenti neo-illuministi e moraleggianti, trascurandone l’impatto che si riverbera soprattutto sui ceti meno favoriti delle singole comunità nazionali europee. 

L’alternativa, secondo l’autrice, è la mera sopravvivenza di una sinistra fortemente minoritaria, foglia di fico delle vergogne di un liberismo selvaggio e distruttivo.

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The book dates back to two years ago, but I think it is important to re-read it here, in view of the European elections, in which the author is running as a candidate with her Bündnis (BSW, Bündnis – Vernunft und Gerechtigkeit), founded just at the beginning of 2024, but which the polls already show at 6% on the national average – with a peak of 23% in the Land Sachsen-Anhalt – above Die Linke, stable at 4.5% and well above the liberal-democratic FDP (3%). BSW has just reached 18,000 subscriber signatures compared to the 4,000 needed to present the list.

  In Italy, it is unfortunately still impossible to vote for BSW, because, as Lucio Caracciolo rightly said, the European elections today only serve to measure the balance of power within national parties and coalitions. A sort of very expensive mega survey (not by chance carried out with a pure proportional system). Thus, the EP makes and unmakes majorities and legislates without the public opinions of individual states being able to exercise effective democratic control, consequently leaving the field open to lobbies.

Who in Italy knows the names of the Latvian or Estonian European commissioners, who also contribute to determining our national policies?

Nor does there exist a left-wing formation comparable to the BSW in our country. Drawing a parallel between Italy and Germany, the PD occupies the political space of the SPD, the AVS roughly corresponds to the German Grüne and Linke, while the Calendian left of “Action” largely insists on the area of the Lifestyle Linke, which is the main target of Wagenknecht’s book. The M5S, whose position has no precise boundaries, still functions as a “lamination tank” for the floods of discontent. It is perhaps here, in this magmatic basin that a political movement similar to the BSW could arise, capable of giving meaning and objectives to a force that wants to cultivate a progressive perspective with solid cultural foundations.

Born in the GDR in 1969, philosopher and economist, Sahra Wagenknecht played in the Freie Deutsche Jugend, the youth organization of the SED. Already leading member of the Linke, her separation is due to obvious disagreements on the political line. The book, whose German title “Die Selbstgerechten” was translated in the Italian edition with a periphrasis, “Against the neoliberal left” and which I would personally translate as “The Complacents” (naturally about oneself), develops a broad reflection on the role that the political forces that define themselves as “left-wing neoliberals” assume today.

An episode narrated almost at the beginning of the text vividly reflects the heart of the matter: in August 2020, Knorr announced that the classic Zigeuner Sauce (“Gypsy sauce”), for obvious reasons of political correctness, would be called Paprikasauce Hungarische Art (” Hungarian-style paprika sauce”). Big win for woke progressives. It’s a shame that at the same time, the 550 employees of the Knorr factory in Heilbronn were subjected to working conditions that were far worse than the previous ones (Saturday working, reduction in starting salary and block on increases).

So here is at work what in the book is defined as the “Lifestyle Linke” mentioned earlier, that “gentrified” left, which no longer spends itself on social cohesion (Zusammenhalt), on recovering the sense of a common belonging (Gemeinsinn), for the reaffirmation of the central role of the national State in key sectors such as, for example, healthcare and housing, but which has retreated into its well-equipped urban fortresses (the “left ZTL”, one might say in Italy) and ended up being essentially the party of the Akademiker, as the author calls them, of guaranteed classes, concentrated on the front of individual freedoms, cosmopolitanism, civil rights, gender theories, more on the defense of diversity than on the fundamental issues of social justice and the fight against inequalities.

Such an attitude has left the field open to the “uncultivated”, populist and nationalist Right, growing throughout Europe (see most recently Portugal) not so much for the concrete solutions that proposes but for the ability they have to offer a Principium individuationis to the masses increasingly consisting of the poor and marginalized and often also the small and middle classes, who fear for their future and feel threatened with relegation in the social ladder due to the uncontrolled developments of globalization.

Wagenknecht also addresses scathing criticism, for example, to the “apocalyptic” protagonists of “Fridays for Future”, who appear to be completely insensitive to the economic-social issues of the transition, to the Grüne, dogmatic holders of an abstract “Good” of the planet, but above all to the neo -social democracy like Schröder who, with his “Agenda 2010” and Harz IV, dismantled the welfare state and made millions of workers more precarious.

Yet it is before everyone’s eyes that the “magnificent and progressive fortunes” of globalization following the explosion of the Soviet bloc turned out to be very different from the optimistic “End of History” and the planetary triumph of freedom and justice. After just over a generation, we can only note the disappearance of politics, swallowed up by an unbridled liberal economy, the birth of enormous and uncontrolled supra-state powers and the stratospheric growth of inequalities.

In Italy, for example, where wages have been stagnant since 1991, 5% of the population holds 46% of total wealth; forty years ago, the ratio between worker’s salary and manager’s salary was 1:45; in 2020 the ratio increased to 1:649.

Wagenknecht’s Gegenentwurf (“counterproposal”) is that of a left that goes back to doing its job, that goes back first and foremost to talking about work and welfare and that regains the representation of the weakest classes, of workers and employees, as well as business capital, today seriously threatened by unbridled liberalism and uncontrolled processes of economic “financialization”, as well as by the expansion of global monopolies (the Big Five, at least two of which, Apple and Microsoft, have a balance sheet much higher than that of Italy).

We often speak of ours as an “open society”, but if it is true that the walls of the old poleis have collapsed, it is equally true that the internal walls have increased enormously, with the consequent loss of the Gemeinsinn that the author talks about in the subtitle of the book. The different social strata no longer “hang out” with each other; the high meets the low only when they use them for subsidiary and low profile activities (delivery of parcels and food, personal assistance). Furthermore, there is an ongoing phenomenon of feudalization of social relationships, in which the families to which they belong increasingly determine the future of their children. Nor should the phenomenon of the so-called poor work, which extends throughout the OECD area, be overlooked: those employed increase in number, but the availability of resources decreases.

Take back control is the title of a paragraph in the book (p. 295), the victorious slogan of Brexit.

Accused of having founded a sort of left-wing AfD, the author underlines the need to regain democratic control of European decisions, today left to the Brussels bureaucratic elites and shareholder lobbies and consequently to defend national specificities. Hence his vision of a future European political union in a framework that is not federal (a single large European “Super-state”), but confederal, which, within the future European state entity, safeguards the historical-political physiognomy of the individual countries, since the national states are the only ones capable of producing authentically social policies.

Stranger to the mainstream, Wagenknecht lucidly tackles burning issues such as that linked to immigration, which risks undermining social cohesion and in front of which the Akademiker’s Lifestyle Linke tends to adopt neo-enlightenment and moralizing attitudes, neglecting the impact that reverberates especially on the less favored classes of the individual European national communities.

The alternative, according to the author, is the mere survival of a strongly minority left, a fig leaf of the shame of a wild and destructive liberalism.

Più armi!


[english version at the bottom]

Ci risiamo. La dama dal tailleur gialloblu, Spitzkandidatin della CSU alle prossime elezioni europee, è tornata sul terreno a lei più congeniale, quello degli armamenti.

Già ministro della difesa della Germania dal 2013 al 2019, con risultati quantomeno discutibili (il peggior ministro secondo Martin Schulz, come abbiamo già scritto qui il 3 marzo 2022), si è distinta in ogni occasione per l’atteggiamento bellicista e di scontro frontale con la Russia di Putin.

Sempre a braccetto con il piccolo oligarca Zelenski, perennemente in divisa e questuante intemerato di armi, armi, armi, che da buon democratico  non si perita di stilare liste di “putiniani” da fornire agli alleati europei perché li zittiscano (e costui dovrebbe guidare l’Ucraina nella UE!), ora che la guerra in Ucraina si sta drammaticamente sempre più trasformando in una inutile strage e che dovrebbe essere evidente a tutti che la Russia non tornerà mai sulla linea di confine ante 24 febbraio 2022, che fa la Nostra? Lancia un piano europeo “di difesa” e lo paragona a quello che ha consentito di affrontare con successo la pandemia. Covid e Russia sullo stesso piano.

Le deliranti parole di Macron (la sua popolarità è oggi al 25%) su un possibile invio di truppe francesi in Ucraina, anche se “al di qua della soglia di belligeranza” (E che ce le mandi a fare? Mah!), l’incapacità di Biden di dettare una linea politica qualsiasi nei diversi scenari mondiali (l’ultima immagine di “Sleepy Joe”, come lo chiama Trump, che lecca un grande cono gelato e farfuglia su un cessate il fuoco dato per certo a Gaza e smentito da lì a poche ore), gli atroci massacri di Hamas del 7 ottobre 2023 e la sanguinaria, spropositata risposta del governo Netanyahu, il prossimo referendum in Transnistria sulla richiesta della regione di entrare a far parte della Federazione Russa, sono “piccoli” fuochi che potrebbero appiccare il grande incendio.

Tutto ciò avrebbe dovuto indurre von der Leyen a intraprendere un’azione decisa e concordata della UE sul piano diplomatico, desertificato in questi ultimi anni, per assicurare una pace duratura sul Continente e non già a spingere sul pedale del riarmo (forse le sfugge che la Russia, che pure fa parte dell’Europa, possiede il secondo arsenale atomico del globo).

Ma tant’è. La lobby delle armi è potentissima e il Parlamento Europeo, privo di una forte validazione democratica, si piega alle logiche del mercato. Se le elezioni europee non daranno vita a una nuova maggioranza, prepariamoci a vedere fiumi di risorse incanalate verso l’industria bellica, che già nei precedenti tre anni ha accumulato ingentissimi profitti.

Del resto, come abbiamo detto all’inizio, la nostra Ursula si muove come un pesce nell’acqua in questi ambienti. Lo provano le sue precedenti esperienze quando era a capo della Bundeswehr, non prive di opacità e accuse di familismo (oltre all’intervento citato su questo blog si veda The aristocratic ineptitude of Ursula von der Leyen di Peter Kuras in “FP”, 21 aprile 2021).

Non c’è che sperare che il Parlamento rigetti il piano e converta le risorse a esso destinate alla restaurazione di un autentico Welfare europeo, oggi enormemente carente.

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Here we are again. The lady in the yellow-blue suit, Spitzkandidatin of the CSU in the next European elections, has returned to the field most congenial to her, that of armaments.

Former defense minister of Germany from 2013 to 2019, with questionable results (“the worst minister” according to Martin Schulz, as we already wrote here on 3 March 2022), she stood out on every occasion for her bellicose attitude and head-on clash with Putin’s Russia.

Always arm in arm with the little oligarch Zelenski, perpetually in uniform and a steadfast beggar of weapons, weapons, weapons, who as a good democrat does not hesitate to draw up lists of “Putinians” to provide to the European allies to silence them (and he should lead the ‘Ukraine in the EU!), now that the war in Ukraine is dramatically turning more and more into a useless massacre and that it should be clear to everyone that Russia will never return to the border line before 24 February 2022, what does ours do? She launchs a European “defense” plan and compare it to the one that made it possible to successfully deal with the pandemic. Covid and Russia on the same level.

Macron’s delirious words (his popularity is now at 25%) on a possible sending of French troops to Ukraine, even if “this side of the threshold of belligerence” (And what are you sending them there for?), Biden’s inability to dictate any political line in the various world scenarios (the latest image of “Sleepy Joe”, as Trump calls him, licking a large ice cream cone and babbling about a ceasefire that was assumed for certain in Gaza and denied a few hours later), the atrocious Hamas massacres of 7 October 2023 and the bloody, disproportionate response of the Netanyahu government, the next referendum in Transnistria on the region’s request to join the Russian Federation, are “small” fires that could start the big fire.

All this should have led von der Leyen to undertake decisive and concerted action by the EU on the diplomatic level, which has been deserted in recent years, to ensure lasting peace on the Continent and not to push the rearmament pedal (perhaps she is unaware that the Russia, which is also part of Europe, has the second largest atomic arsenal in the world).

But that’s it. The gun lobby is very powerful and the European Parliament, lacking strong democratic validation, bends to the logic of the market. If the European elections do not give rise to a new majority, let us prepare to see rivers of resources channeled towards the war industry, which has already accumulated huge profits in the previous three years.

After all, as we said at the beginning, our Ursula moves like a fish in water in these environments. This is proven by his previous experiences when he was head of the Bundeswehr, not without opaqueness and accusations of familism (in addition to the speech cited on this blog, see The aristocratic ineptitude of Ursula von der Leyen by Peter Kuras in “FP”, 21 April 2021).

We can only hope that Parliament rejects the plan and converts the resources allocated to it towards the restoration of an authentic European welfare system, which is currently enormously lacking.

Le ragioni dell’altro, le ragioni della politica


Un articolo di Giuseppe CAPPELLO

Rabin e Arafat a Oslo nel settembre del 1993
Due ragazzi del villaggio israelo-palestinese di Neve Shalom

Abstract: The content provides a thought-provoking perspective on the Israeli-Palestinian conflict and its implications for democracy. It highlights the need to move beyond the simplistic binary narratives and address the underlying issues of social justice and peace. The analysis of the role of democracy in the context of contemporary capitalism is particularly insightful. Overall, the content offers a valuable contribution to the ongoing debate.

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Abbiamo visto scene agghiaccianti discendere dall’attacco di Hamas al rave party dei giovani israeliani così come al kibbutz di Kfar Aza; di seguito, le scene agghiaccianti hanno investito Gaza e ci dobbiamo preparare a vederne di peggiori nei prossimi giorni.

Di fronte a tutto ciò abbiamo due possibilità.

Cadere nell’altrettanto agghiacciante ‘logica’ di contrapporci nella polarizzazione tra filopalestinesi e filoisraeliani o, più umanamente e razionalmente, comprendere che nell’una e nell’altra realtà politica il profilo delle vittime e dei carnefici va inquadrato secondo una prospettiva diversa. Vi è infatti la possibilità di intendere come i carnefici e le vittime non debbano essere ricondotti all’una e all’altra realtà politica ma nell’una e nell’altra realtà politica. Nell’una e nell’altra realtà politica vi sono, infatti, sia agli atti della storia che a quelli della cronaca, un fronte estremista e un fronte moderato.

Ripercorrere qui gli atti della storia sarebbe lungo e molto complesso. Ci sono tuttavia dei punti fermi che si possono più velocemente richiamare proprio nell’ottica di una intelligenza storica della cronaca.

E’ infatti proprio la storia della questione israelo-palestinese a dirci come quelle figure politiche del mondo arabo e del mondo israeliano che abbiano lavorato a una soluzione del conflitto in questione siano cadute assassinate proprio a opera dell’estremismo interno presente in una parte e nell’altra. Citeremo solo i nomi di Sadat (1981) da una parte e di Rabin (1995) dall’altra. Una verità storica a cui aggiungeremo alcuni altri due punti fermi da tenere presenti: la proclamazione unilaterale della nascita dello Stato israeliano ad opera di Ben Gurion nel 1948 a dispetto dello stesso originario piano dell’ONU (Shimon Peres lo chiamava “il peccato originale di Isreaele”) e l’inconcepibile ritiro di Arafat dall’accordo di Camp David con Barak nel 2000 (io ne parlerei nei termini di un contropeccato originale palestinese).

Lasciando le orme della storia per venire ai passi della cronaca, aggiungeremo i tre elementi che hanno portato alla radicalità dello scontro che oggi riappare improvvisamente sotto i nostri occhi. La colonizzazione massiva israeliana in Cisgiordania negli ultimi venti anni e la radicalizzazione delle posizioni palestinesi che possono essere individuate nella cacciata stessa di Fatah dalla striscia di Gaza per opera di Hamas (2007); il terzo elemento della questione è il disimpegno degli Stati Uniti e degli stessi popoli arabi nell’opera di mediazione della questione. E qui siamo di nuovo di fronte al bivio fra il prendere animosamente parte in una disputa che veda come egemoniche e originarie le responsabilità di Israele o dei Palestinesi. Cosa che non ci aiuta a capire ma soprattutto non ci aiuta ad agire per quanto ognuno possa agire a dispetto del fatto che non si vedono attori neanche a livello dei più grandi organismi statali e sovrannazionali del pianeta.

Capire e agire. E’ una strada, qualora la vogliamo intraprendere, che ci porta dalla più circoscritta questione israelo-palestinese al cuore dell’Europa e degli Stati Uniti. E ci fa porre un interrogativo: la democrazia come l’abbiamo conosciuta può essere ancora l’involucro politico dentro cui il capitalismo è nato e si è sviluppato? O la crudezza del capitalismo contemporaneo sta facendo implodere le nostre stesse istituzioni democratiche? Perché qui ciò che sembra di più venire alla luce dal microcosmo israelo-palestinese fino all’intero sistema dei nostri Stati occidentali è l’incapacità della politica a mediare e a contenere la volontà di potenza delle soggettività economiche.

Su questa strada gli indizi ci vengono proprio dagli ultimi accordi che dovevano essere portati a compimento fra Israele e l’Arabia Saudita. Si tratta degli accordi di Abramo che, a fronte di un’irriducibilità monadica degli Stati in questione, ci hanno fatto vedere come sul terreno dell’economia le finestre delle appunto più irriducibili monadi politiche, teologiche e culturali, si aprano magicamente. Onde il pensiero che quello che non si realizza per i popoli e per i poveri è già una realtà di fatto fra le élites e per i ricchi.

Dividersi tra filoisraeliani e filopalestinesi è quanto di più sciocco si possa fare. Forse è venuto il tempo di recuperare, qui si radicalmente, le prospettive della giustizia sociale e della pace dentro cui una capacità d’intelligenza politicista può riprendere fiato nell’apnea di una volontà di potenza economicistica che al giorno d’oggi permea individui e Stati e rischia di portarci, oltre a conflitti interiori di ordine esistenziale e importazione di modelli autocratici lì dove diciamo di esportare la democrazia, fino sulle soglie di una nuova guerra mondiale «fra persone che si uccidono senza conoscersi per gli interessi di persone che si conoscono ma non si uccidono».

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Caro Professore,

questo suo intervento sulla “questione israelo-palestinese” mi pare affatto condivisibile e utile per corroborare un dibattito altrimenti ossificato e semplificato, secondo la logica del bianco-nero tanto cara alla comunicazione di massa odierna. Per questo la ringrazio di avermi consentito di pubblicarlo anche sul mio blog, oltre che su “Domani”.

Tra i tanti spunti di riflessione che lei ci offre mi pare particolarmente interessante – anche per collocare la suddetta questione nel dovuto contesto – quello sulla democrazia come “involucro” del capitalismo attuale.

Come ho avuto già modo di scrivere, il 1989, la caduta del Muro di Berlino e il susseguente disfacimento dell’URSS e del blocco sovietico, non hanno secondo me significato la “fine della Storia”, ma la “fine della Politica”, il predominio assoluto degli “animal spirits” di keynesiana memoria. Quella che lei definisce “la crudezza del capitalismo contemporaneo” è in realtà l’essenza stessa del sistema che, non più costretto a mediare i propri interessi con quelli di altri (e in questo la presenza di un blocco economico e politico antitetico aveva una sua precisa funzione), ha raggiunto una condizione di “purezza” mai vista prima. I segni? Un soggettivismo senza più limiti, la centralità assoluta dei processi di arricchimento (Enrichissez-vous! Diceva Guizot), l’abisso apertosi tra il basso e l’alto (Israele, PIL/ab. 43.000 $, Territori Palestinesi PIL/ab 3.500 $) e tanto altro ancora.

 E la democrazia – aggiungerei l’aggettivo “liberale”? Un involucro, appunto, una “sovrastruttura” come si sarebbe detto un tempo.

Verissimo quello che lei dice: il tragico microcosmo israelo-palestinese è specchio dell’assenza della politica (vedi il sempre più fantasmatico diritto internazionale – Hegel ha avuto la meglio su Kant –  la patente inutilità dell’ONU, con le sue costosissime truppe di interposizione che al primo segnale di guerra si ritireranno), Tale assenza, voluta e perseguita, viene intesa da molti come l’eliminazione di un mero intralcio al dispiegarsi delle forze vitali dei popoli in un mondo globalizzato. Da qui la conseguente, grave disaffezione rispetto alle rappresentanze elette – sulla quale si spargono lacrime di coccodrillo –  e il sempre più frequente esplodere di atti rabbiosi e distruttivi o di movimenti estremi pre-moderni. Da qui la sanguinosa illusione che il conflitto tra palestinesi e israeliani sia una sorta di “arcaismo”, un relitto del passato che la modernità saprà risolvere in automatico.

Gli accordi di Abramo, di cui si è molto parlato, sono solo apparentemente “un atto politico”, essendo in sostanza un accordo economico tra potentati di vertice, dalle credenziali democratiche dubbie, che sono ben lontani dal riflettere il pensiero delle rispettive opinioni pubbliche.

La terza guerra mondiale a rate, di cui parla papa Francesco, sta diventando una realtà. Speriamo che, dopo gli acconti, non si giunga al saldo finale.

Suo.

Freud era un complottista?


Abstract:

The content delves into the use of the term “complottismo” and the simplification of reality in public discourse. It also addresses the tendency to replace historical investigation with propaganda and the dominant neo-Enlightenment perspective. There is a mention of the Ukraine conflict and the labeling of those who seek to understand its complexities as “Putinists”. The content concludes by discussing the fragmentation of societies and the importance of grounding individuals in their history.   Overall, the content provides a thought-provoking analysis of the use of conspiracy theories and the oversimplification of complex issues.

[English version in http://www.insightweb.it/web/content/was-freud-conspiracy-theorist%5D

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Nel dibattito pubblico, sempre più ossificato e costruito con slogan, frasi fatte, pezzi di discorso assemblati acriticamente, una delle parole più usate è “complottismo”.

Adoperata come un passe-partout, serve a stigmatizzare ogni lettura, ogni interpretazione che tenti di vedere cosa succede sotto la superficie degli eventi.

Nella vulgata giornalistico-televisiva gli accadimenti, come i documenti, “parlano di per sé”, sono “chiari”, “inequivoci”; chi tenta di scavarvi sotto – come la celebre “vecchia talpa” – è assimilabile a un romanziere d’appendice, creatore di congiure fittizie e di società segrete farlocche.

Dunque bando a ogni indagine “che si allontani dai fatti”, come se “i fatti” esistessero in quanto tali. Eppure questo è il sottinteso che passa nella comunicazione mainstream.

Già Tacito parlava secoli fa degli “arcana imperii”, i segreti del potere, che andavano indagati sotto la superficie, se si volevano comprendere gli eventi. Prima di lui Tucidide distingueva tra cause occasionali e cause vere e sulla sua scia Polibio, che distingueva tra pròphasis (causa apparente), archè (inizio), e aitìa (causa reale).

 Complottisti anche loro?

Il fatto è che all’indagine storiografica si è sostituita largamente la propaganda, come si vede nel caso della guerra in Ucraina, che impedisce di analizzare il conflitto alle sue radici e bolla come “putinisti” tutti coloro i quali cercano di capire le differenti stratificazioni che hanno condotto al rovinoso (soprattutto per l’Europa) scontro tra Russia e NATO.

Tale atteggiamento di semplificazione e di accettazione della realtà “così com’è”, in cui il bianco si alterna al nero senza sfumature, è peraltro in piena sintonia con la tendenza neo-illuminista oggi largamente dominante, secondo la quale alcuni termini quali, ad esempio, “democrazia”, “diritti della persona”, “principi morali” sono universali sottratti al flusso della Storia che pure li ha concretamente prodotti.

Ed ecco che quando si parla di democrazia, nei fatti si intende “democrazia liberale”, ovvero quella forma di governo politico che è nata nel seno della nostra cultura due secoli fa circa, dopo un lavorio millenario e con mille sfumature e che noi vogliamo bellamente “esportare” in Cina, in Africa, dovunque, senza tener minimamente conto della storia di quei paesi.  Perdendo per strada l’aggettivo, la nostra forma di democrazia diventa dunque la democrazia tout-court.

Paul Ricoeur definì Marx, Nietzsche e Freud “i maestri del sospetto”; oggi questi stessi filosofi, se andassero in televisione, in qualche talk-show, sarebbero di sicuro etichettati come “i maestri del complotto”.

Frantumare le società in grumi di atomi a se stanti, tenuti assieme da principi a-dialettici, indiscutibili e astratti, soddisfa le esigenze dell’attuale modello di sviluppo, che mal sopporta interpretazioni complesse, capaci di radicare gli individui nella loro storia.

Isolando gli individui, negando loro un’identità concreta, surrogata dall’ideologia e della falsa coscienza, li si rende malleabili e intercambiabili sul mercato globale.

Greta teologa


[pubblicato su Insightweb di aprile, english version]

Greta Thunberg, la ex ragazzina – oggi ventenne – svedese, “icona”, come si usa dire oggi, dell’ambientalismo, bamboleggiata dai grandi della terra e, oserei dire, brandita come catalizzatrice di senso di uno sviluppo capitalistico globale che fa del relativismo e della stessa mancanza di senso la sua dimensione sovrastrutturale vincente, a giugno riceverà il dottorato onorario in teologia dall’università di Helsinki.

Non senza contrasti e senza proteste. È stato detto, ad esempio, che “l’unico grande merito di Greta è stato quello di marinare regolarmente la scuola”, che la sua preparazione scientifica lascia alquanto a desiderare.

Mi paiono obiezioni che hanno una loro validità, ma che non colgono nel segno.

Nel caso di Greta non si tratta di certificare le sue competenze culturali generali e specifiche nelle scienze dell’ambiente che, ictu oculi, non paiono particolarmente approfondite. Si tratta piuttosto di rafforzare l’immagine (icona, appunto) di Greta in quanto sintesi “religiosa” di un pensiero sempre più dogmatico e indiscutibile qual è quello apocalittico della ormai prossima fine del mondo a causa del climate change, provocato dalla “cattiveria” di una umanità narrow minded, che sta devastando la Terra Madre.

L’ambientalismo, fattosi religione, ha – coerentemente – i suoi dottori. L’attuale pontefice, del resto, è un ambientalista convinto.

Si sente dire spesso: “La verità è davanti agli occhi di tutti, i cambiamenti climatici sono dovuti alle attività dissennate degli uomini, lo dice la scienza” – facendo così della scienza un catechismo.

E il pensiero “laico”? È ancora possibile ragionare in termini complessi anche su questi argomenti apparentemente così semplici e chiari? Naturalmente la risposta è sì ed è quantomai urgente continuare a mettere sul tavolo altre ipotesi, a vagliare altre risposte, a “dubitare” di ogni verità precostituita. Sembrerebbe banale. Eppure non lo è.

Ogni mezzo di comunicazione di massa – salvo rare eccezioni, tra le quali segnalo il sito clintel.org/Italy –  è invaso ed egemonizzato dal pensiero unico ambientalista, dal Parlamento, dove un povero curato della nuova religione ha portato materialmente dei sassi per “provare” (?) che ci troviamo in un periodo di siccità di cui si conoscono già tutte le ragioni, tutte imputabili agli uomini e alle quale solo la cecità degli stessi impedisce di porre rimedio, ai talk show, al mainstream giornalistico.

Il culto della Natura, intesa sempre come un’entità benigna e immota, violentata dalla tecnica e dalla “scienza” (quella cattiva, naturalmente), dove si officia un ideale di vita ancestrale, fatto di caprette, formaggi fatti in casa, torte della nonna, altra entità sacralizzata, e altre attività congeneri è diffuso soprattutto nella parte – minoritaria – del mondo a più alto reddito, il cosiddetto Global North, che noi spesso confondiamo con il mondo tout court.

 Del resto faticherei a vedere penetrare lo stesso culto di sapore rousseauiano della bontà e della genuinità della vita agro-pastorale, che so, nel Sahel.

Un tempo si sarebbe parlato di “alienazione”, di “falsa coscienza”, che impediscono di comprendere come il vagheggiato ritorno all’autenticità della Natura è un lusso che presuppone un’avvenuta accumulazione primitiva, tale da consentire la “riscoperta della vita semplice del villaggio”, accumulazione primitiva peraltro ottenuta a spese di secoli di sfrutamento del Global South. Mi viene in mente l’Hameau de la Reine, fatto costruire da Maria Antonietta (quella delle brioches), a Versailles.

Il crescente sentimento di insoddisfazione e di ribellione anche violenta che pervade strati sempre più ampi di popolazioni di fronte alla crescita spaventosa delle diseguaglianze e che non trova più risposte nella politica, può tuttavia “infastidire” chi governa.  

Quale miglior rimedio allora se non quello di convogliare quel sentimento verso una nuova religione, che ha già individuato il Maligno e che promette la salvezza in una Natura favoleggiata e provvidenzialmente lontana, capace di ricucire l’atomizzazione delle nostre società fornendo loro senso in un “altrove” in cui, come in tutte le favole, il Bene e il Male si fronteggiano ben distinti l’uno dall’altro?

Non ci indigniamo dunque. Tout se tient. È a buon diritto che Greta è diventata dottore in teologia.

GRETA THUNBERG THEOLOGIAN

Greta Thunberg, the former Swedish girl – now twenty -, “icon”, as they say today, of environmentalism, will receive in June an honorary doctorate in theology from the University of Helsinki. She is dolled up by the greats of the earth and, dare I say, brandished as a catalyst of sense of a global capitalist development that makes relativism and of the same senselessness its winning superstructural dimension.

 There have been protests, of course. It has been said, for example, that “Greta’s only great merit was that she regularly skipped school”, that her scientific preparation raises several doubts.

They seem to me objections that have their validity, but that miss the mark.

In Greta’s case, it is not a question of certifying her general and specific cultural skills in environmental sciences, which, ictu oculi, do not seem particularly in-depth. Rather, it is a question of reinforcing the image (icon, in fact) of Greta as a “religious” synthesis of an increasingly dogmatic and indisputable thought such as the apocalyptic one of the imminent end of the world due to climate change.

The cause can be traced in the “wickedness” of men, who are devastating the Mother Earth. Like any dogmatic thought, it admits no discussions.

Consequently, environmentalism, made religion, has – consistently – its doctors. Pope Francis, moreover, is a convinced environmentalist.

What about “secular” thought? Is it still possible to reason in complex terms even on these apparently so simple and clear topics? (“The truth is before everyone’s eyes”, “science says it”, we often hear it said, thus making science a catechism).

Of course, the answer is yes and it is extremely urgent to continue to put other hypotheses on the table, examine other answers, and “doubt” every pre-established truth. It would seem trivial. Yet it is not.

Every means of mass communication – with rare exceptions, among which I point out the site clintel.org/Italy – is invaded and hegemonized by the single environmentalist thought, even in italian Parliament, where a poor curate of the new religion has physically brought stones to “prove ” (?) that we are in a period of drought for which all the reasons are already known and which only the blindness of men prevents from remedying.

The cult of Nature, always understood as a benign entity, raped by technique and “science” (the bad one, of course), where is proposed an ideal of life made of homemade cheeses, grandmother’s cakes (grandmothers, another sacralized entity, especially if poor and peasant) and so on is widespread above all in the – minority – part of the world with the highest income, the so-called Global North, which we often confuse with the world tout court – after all, I would struggle to see a Rousseauan cult of the goodness and authenticity of agro-pastoral life penetrate, say, in the Sahel.

Once upon a time, there would have been talk of “alienation”, of “false consciousness”, which prevent us from understanding how the longed-for return to the authenticity of Nature is a luxury, which presupposes a primitive accumulation that has taken place, such as to allow the “rediscovery of the simple life of village”. I am reminded of the Hameau de la Reine, built by Marie Antoinette (the one of the brioches), in Versailles.

Alienation and false consciousness that fail to grasp the contradiction between a hyper-technological and computerized existence in which we are immersed every day and the feeling of distrust, which is also instilled in the minds, especially of young people, towards progress and modernity.

Who benefits from all this? Clearly, to the very few who hold the reins of the global economy in their hands, to turbo-capitalism, to anarcho-liberalism, which sees in the green-economy religion a further way to consolidate its planetary hegemony.

The growing feeling of dissatisfaction and even violent rebellion that pervades large sections of the population in the face of the frightening growth of inequalities and which no longer finds answers in politics can however “annoy” those in government.

What better remedy then than to convey that sentiment towards a new cult, which promises salvation in a fabled and providentially distant Nature, capable of mending the atomization of our societies by providing them with meaning in an “elsewhere” in which, as in all fairy tales, Good and Evil face each other quite distinct from each other?

Therefore, we are not indignant. “Tout se tient”. It is with good reason that Greta became a doctor of theology.

Un anno di guerra


L’ultima riflessione sulla guerra tra Russia e Ucraina risale qui al 13 settembre scorso.

Il 5 novembre si è svolta a Roma la marcia per la pace, partecipata da decine di migliaia di persone. Un segnale che le opinioni pubbliche europee mostrano oggi segni sempre più evidenti di inquietudine, mentre mi pare si stiano affiochendo gli squilli di tromba della propaganda guerresca, suonata a gran voce dai governi e da una stampa mainstream che, ancora una volta, misurano la loro lontananza dalle reali preoccupazioni delle opinioni pubbliche dei rispettivi paesi.

La storia non si ripete mai, lo sappiamo, né è mai stata “magistra vitae”, ma se si leggono testi e documenti relativi al periodo antecedente lo scoppio della Grande Guerra, nel 1914, non si possono non ravvisare similitudini. Primo fra tutti l’apparente ineluttabilità degli eventi.

 Anche allora, il meccanismo perverso degli schieramenti e delle alleanze impedì che le volontà di pace, pur maggioritarie in Europa, si affermassero a impedire “l’inutile strage”, come la definì Benedetto XV.

Prigionieri tutti degli schieramenti precostituiti, bastò allora che si muovesse una sola rotellina dell’ingranaggio (l’assassinio di Francesco Ferdinando a Sarajevo e l’ultimatum successivo dell’Austria-Ungheria alla Serbia) per mettere in moto il tragico “macinino”, come direbbe il “fisolofo” belliano che inghiottì milioni di uomini.

Oggi, in un mondo globalizzato, con un’arma atomica appannaggio di troppi paesi “indipendenti”, senza un sistema di pesi e contrappesi a scala planetaria, con una ONU inefficace e inetta e uno stato-egemone (gli USA) non più in grado di guidare un mondo unipolare, i pericoli di allora si sono moltiplicati e intensificati.

Occorre dunque avere il coraggio di inserire nel meccanismo dei granelli di sabbia, per incepparlo prima che sia troppo tardi. Da dove possono essere ricavati questi granelli? Da molte “cave”. Innanzi tutto bisogna:

1. – abbandonare la tesi moral-virtuistica che vede il Bene tutto da una parte e il Male tutto dall’altra; lasciamola alla propaganda, ma non facciamone un modello di analisi degli eventi;

2. – ricostruire i fatti attuali ripercorrendo le tappe della loro formazione e le loro radici storiche;

3. – cercare soluzioni che non contemplino l’annientamento di uno dei contendenti e che prefigurino un onesto compromesso possibile, anche provvisorio;

1. – La Russia di Putin: incarnazione del Male. Nessuna ragione nei suoi comportamenti. Putin è solo uno psicopatico e malato grave. Vive chiuso nella rocca del Cremlino circondato dai suoi scherani sanguinari. Forse è addirittura morto e a noi vengono mostrate delle sue immagini “truccate”. Tutto il popolo russo soffre sotto il tallone della dittatura e vorrebbe scappare in massa verso la Finlandia e la Bielorussia. I soldati russi muoiono a decine di migliaia. Sono branchi di selvaggi violentatori e saccheggiatori.

Zelenski è il principe del Bene. Non ha commesso errori. Governa democraticamente il suo paese ed è senza colpe per la brutale invasione russa. I soldati ucraini non muoiono, i civili sì. Basterà fornire armi moderne ai resistenti e l’Ucraina riconquisterà tutte le terre perdute compresa la Crimea, sconfiggendo (uccidendolo, se non è già morto) definitivamente Putin e facendo piombare la Russia in un benefico caos rigeneratore.

 Al di là del paradosso, questa è l’immagine che i media ci trasmettono ogni giorno. Basterebbe fermarsi un momento a ragionare e ci si accorgerebbe subito che una visione binaria di tal fatta non serve a capire, ma a “propagandare” una visione delle cose unilaterale. Ancora una volta, basterebbe rileggere, ad esempio, i testi di propaganda delle potenze dell’Intesa che, negli anni 1914 – 1918 dipingevano i tedeschi non già come nemici, ma come mostri stupratori e cannibali.

2. – Riprendo quello che dissi il 24 febbraio, allo scoppio della guerra: l’identità nazionale ucraina è molto più complessa di quanto la dipingano le posizioni illuministiche di chi considera solo l’astratta violazione dei confini così come appaiono oggi una insopportabile ferita arrecata al sistema dei Diritti Universali e al fantasmatico Diritto Internazionale (peraltro valido a fasi alterne: in Ucraina sì, in Serbia no, per il Donbass sì, per il Kosovo no – e si potrebbe continuare).

In questi ultimi tempi si è inoltre sempre più fatta sentire l’azione di due paesi dell’UE “anomali”, la Polonia e l’Ungheria. Soprattutto la prima pare essere diventata la nazione-guida della politica estera dell’Unione: nazionalista e bellicista. Le ragioni stanno nella storia. Si parla con sempre maggiore insistenza di una forza polacca pronta a intervenire in territorio ucraino non già per difendere Zelenski e il suo governo, ma per riconquistare quello che è stato polacco fino al 1945 e mai russo, ovvero la regione di Lwow/Leopoli. Dal canto suo, l’Ungheria ha mandato un chiaro segnale con lo “svecchiamento” degli alti gradi dell’esercito filo-NATO, in vista di una possibile riconquista, anche in questo caso qualora il governo di Zelenski subisse un tracollo, della Transcarpazia, ungherese per secoli e perduta anch’essa nel 1945.

Della Crimea e del Donbass non occorre dire che da sempre sono state russofone e filorusse.

Analizzare il dato storico significa giustificare l’invasione putiniana? Niente affatto. Solo, se non si vuole attribuire alla psichiatria anche una capacità di comprensione dei fenomeni storici, è necessario comprendere le ragioni di chi ha – manifestamente – torto.

Esistono inoltre prospettive globali che vanno al di là del conflitto attuale e di cui bisogna tener conto. Dall’inizio del millennio – almeno – gli USA hanno visto con profonda inquietudine la prospettiva di una saldatura, per quanto limitata, tra Russia e UE in ambito economico e commerciale. Diffidenti da sempre di un’Europa – già economicamente forte – politicamente unita, avversari acerrimi dei gasdotti Nordstream 1 e 2 (vedi i warnings lanciati periodicamente alla Germania di Angela Merkel), hanno sempre temuto – a buon diritto – l’integrazione tra un immenso paese detentore di materie prime preziosissime come la Russia con un continente europeo tecnologicamente avanzatissimo. La guerra in Ucraina ha offerto una ghiotta opportunità di inserire un cuneo definitivo tra Russia e Europa (il sabotaggio del gasdotto baltico mi pare abbia un nome e un cognome), facendone pagare il conto ad altri (vedi la crisi della bilancia commerciale tedesca) e senza mettere, come al solito, “the boots on the ground” e patire sconfitte (vedi l’Afghanistan). Senza contare che, in assenza del gas russo, dovremmo di necessità comprare quello americano da fracking, molto più caro.

3. – Soluzioni? Nessuno è in grado di fare uscire il coniglio dal cappello. Certo è che non avere prospettive di uscita è davvero drammatico. E parlo del fronte “occidentale” (by the way, la Russia di oggi è un paese ultracapitalista, anche se nella propaganda si gioca sulla comunicazione subliminale che Putin sia come Stalin e la Russia come l’URSS). Cosa si vuole in realtà?

A) – La sconfitta di Putin e il ritorno alla situazione quo ante? In questo caso gli attuali rifornimenti d’armi all’Ucraina non bastano. Ha ragione Zelenski. Occorrono aerei moderni, moderne artiglierie capaci di raggiungere il Cremlino, moderni sistemi antiaerei. Se è necessario l’impiego di reparti di élite dei vari eserciti della NATO. Insomma è necessario fornire all’Ucraina tutta la tecnologia occidentale più avanzata. Una volta sconfitto Putin sul terreno, la sua scomparsa politica ne sarà la conseguenza ineluttabile. L’arma atomica? Uno spauracchio senza vera sostanza.

B) – L’apertura di un tavolo di trattativa? Non serve che ci sia anche Putin , ma tutti gli attori che sostengono il governo ucraino. A Yalta e a Teheran non c’erano i nazisti tedeschi. Gli alleati dell’Ucraina dovrebbero riunirsi non per celebrare la solita messa cantata della indefettibile solidarietà alla causa ucraina, con relativo stanziamento di ulteriori pacchetti di armi (che, nelle paradossali parole di Biden, non vanno considerate dirette contro la Russia!) ma per elaborare un ventaglio di proposte ragionevoli e accettabili da tutte le parti coinvolte, da sottoporre pubblicamente e apertamente alla Russia come punto di partenza di una trattativa lunga e difficile, nel corso della quale raggiungere quantomeno un cessate il fuoco.

Occorre urgentemente scegliere.

Elezioni politiche 2022: un’occasione per “normalizzare” il sistema


Cacicco

[pubblicato anche su Insightweb.it di settembre].

Il Partito Democratico, a meno di vent’anni dalla sua fondazione, mostra oggi tutte le sue rughe e le sue magagne.

Nato sulla spinta di una cultura ”globalista”, in cui il progresso si identificava innanzi tutto con la perentoria rivendicazione e la difesa delle libertà e dei diritti individuali, rifiutando cioè i “vecchi” concetti identitari sia nazionali che ideologici, il partito che voleva unire i progressismi (quello cristiano e quello socialista sopra gli altri) in un prospettiva di  “fine della storia” , nel corso degli anni ha dovuto fare i conti con la povertà di questa teoria di sviluppo unidirezionale, fatalmente egemonizzata da un’unica potenza (gli USA) e da un’unica cultura.

Le contraddizioni, apparentemente esorcizzate da un veltroniano ottimismo di maniera, col tempo si sono rivelate in tutta la loro evidenza, trasformando in buona sostanza il PD in un mero aggregato di forze applicate al governo dell’esistente, accettato come ineluttabile e definitivo e appena celato da una coperta valoriale sempre più sbiadita.  

L’ “Astuzia della Ragione” tuttavia non perdona: sul piano globale, la caduta di Eltsin, che tanto aveva ben operato in Russia a vantaggio del sistema capitalistico occidentale guidato dagli USA, ha aperto la strada al “populismo zarista” di Putin, che ha il suo punto di forza nella riscoperta identità nazionale del popolo russo. Nel resto del mondo, il processo di istituzionalizzazione/integrazione dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) che rappresentano il 42% del popolazione mondiale e il 25% circa della ricchezza, ha condotto a nuovi equilibri nei rapporti tra le potenze mondiali.

Gli USA, padroni assoluti del campo negli anni ’90 e nel primo decennio del XXI secolo, risentono oggi di un evidente declino di egemonia all’esterno e di una profonda crisi interna, con squilibri sempre più marcati sia tra le classi sociali che sul territorio, come testimonia l’imprevista (!) ascesa del “populista” Trump, erede delle tradizionali politiche isolazioniste del Great Old Party. Gli Stati Uniti si trovano quindi nella necessità di combattere con l’unica terribile primazia che ancora indiscutibilmente esercitano, ovvero quella che deriva dall’apparato militare-industriale, di cui, da sempre, i democratici “progressisti” sono stati tra i paladini politici. 

In una quadro internazionale tanto mutato e ricco di pericolosi squilibri, la periferica Italia si aggrappa acriticamente a un’Europa imbelle e schiacciata, nelle sue istanze di governo brussellesi, sulle posizioni nordamericane.

Il PD, partito ipereuropeista, incapace tuttavia di uscire dagli slogan e di prefigurare un realistico processo di integrazione europeo secondo un preciso modello (federazione? confederazione?) è diventato sempre di più la faccia “politica” delle classi e dei gruppi che gestiscono il potere, sia a livello nazionale che locale, sulla base di un generale-generico “progressismo”, fatto di politically correct, di luoghi comuni sulla modernità, di bon ton, ma senza radici nel corpo autentico dei bisogni sociali.

Di qui le ondate di insoddisfazione profonda, sfociate nel sempre più accentuato assenteismo dalle urne (soprattutto tra le nuove generazioni) oppure nella impetuosa ascesa di movimenti “populisti”, trattati con grande disprezzo dalle cosiddette elites senza però che ad essi si sia mai risposto in termini concreti di programmi di contrasto, ad esempio, alle crescenti diseguaglianze.

Il declino del PD e delle coalizioni di cui è stato magna pars, è evidente. Debole nelle elezioni nazionali, più solido in quelle locali (et pour cause! D’Alema, una generazione fa, ne parlò come di “un accampamento di cacicchi”) è riuscito a mantenersi al potere con successive “chiamate alle armi” per il bene della Nazione.

Ci riuscirà anche stavolta? Non credo. Il tono apodittico e apocalittico scelto per la campagna elettorale da Enrico Letta (nero-rosso, o noi o loro), assunto senza avere alle spalle una situazione che lo potesse sostenere (altra cosa sarebbe stata se si fosse lavorato seriamente a un’alleanza strategica tra M5S e PD), la richiesta di votare “almeno” per contenere la vittoria dell’avversario, demonizzato come “sicuro autore di una torsione autoritaria”), la ripetizione trita di formule e di temi eterogenei (scuola, sanità, lavoro, diritti civili) a cui non si è data mai una soluzione concreta (e qui il M5S ha ragione di dire che, per quanto opinabili siano, è stato l’unica forza che ha condotto in porto alcune riforme importanti che si era prefisso, la diminuzione del numero dei parlamentari, il reddito di cittadinanza, il superbonus edilizio), potrebbero condurre a una cocente sconfitta.

Se così sarà, i nodi di cui si diceva all’inizio non potranno non giungere al pettine. E allora potrebbe aprirsi uno scenario di “normalizzazione”, con l’implosione del PD così come è oggi (già dieci anni fa Giorgio Gori, allora spin doctor di Matteo Renzi, riteneva il PD “irriformabile”) e il ripristino, senza più illusioni irenistiche, del necessario conflitto democratico tra idee culturali e politiche diverse e opposte; in tal modo la situazione italiana si assimilerebbe a quella di altri paesi europei e occidentali e potrebbe far emergere:

  • Un polo di sinistra, radicale ed ecologista;
  • Un polo laburista (parte del PD, M5S)
  • Un polo liberaldemocratico (Azione, Italia Viva, Forza Italia, parte della Lega, parte del PD)
  • Un polo conservatore (Fratelli d’Italia e parte della Lega)

Si introdurrebbero elementi di chiarezza, che forse porterebbero a far rinascere il Grande Assente di questi ultimi anni, ovvero il Partito Politico, senza il quale si è visto che il sistema democratico tende a polarizzarsi attorno a figure leaderistiche, non sempre all’altezza del compito e dei tempi.

Uno spiraglio di pace?


Menahem Begin, Jimmy Carter Anwar al-Sadat a Camp David

L’attuale fase dello scontro tra Russia e Ucraina mi ha richiamato alla mente la guerra del Kippur, del 1973.

Alla vigila dello scontro gli israeliani occupavano tutto il Sinai, rendendo impossibile l’utilizzo del Canale d Suez.

L’attacco “a sorpresa” dell’Egitto, le cui armate riuscirono ad attraversare il Canale in tre punti e ad attestarsi sulla riva opposta su una fascia piuttosto ampia di territorio, stupì allora un po’ tutti. Ci si chiedeva: come è mai possibile che il potentissimo servizio segreto israeliano non abbia saputo dell’imminente attacco? Come hanno fatto gli egiziani a inoltrarsi per parecchi chilometri nel Sinai disponendo di truppe ed equipaggiamenti di sicuro inferiori in qualità rispetto a quelli israeliani? 

Naturalmente, la reazione di Gerusalemme non si fece attendere e ben presto le truppe di Sadat, il presidente egiziano, furono messe in grave difficoltà, rischiando l’accerchiamento e la sconfitta. Eppure questo conflitto, il quarto tra arabi e israeliani, l’unico in cui gli egiziani riuscirono ad avere –seppur parzialmente – la meglio sugli israeliani condusse prima a un cessate il fuoco, poi a colloqui di pace a Ginevra e qualche anno dopo ai colloqui di Camp David, auspice il presidente USA Jimmy Carter, tra Anwar al-Sadat e Menahem Begin che condussero nel 1979 al trattato di pace israelo-egiziano, con la restituzione del Sinai all’Egitto.

Dunque, fu dalla sconfitta del contendente più forte e fino ad allora invitto che nacque la prima, concreta possibilità di pace tra mondo arabo e Israele, quasi che con quella sconfitta si fosse offerto un bilanciamento di forze capace di consentire ai rivali di sempre di parlarsi.

Mutatis mutandis, oggi potremmo trovarci in una situazione analoga: il contendente più forte sta subendo un ripiegamento per l’attacco “non previsto” delle truppe ucraine, soprattutto nel nord-est.

Potrebbe trattarsi del kairòs, del momento opportuno, per consentire all’Ucraina di sedersi al futuro tavolo della trattiva con la piena dignità di chi ha dimostrato la capacità di resistere.

Se tutti gli attori del conflitto (USA, UE, Russia e Ucraina) avranno la lungimiranza di cogliere questo momento di riequilibrio delle forze sul campo per promuovere un’iniziativa che conduca quantomeno a un rapido cessate il fuoco e all’apertura – finalmente – di un percorso di pacificazione, si solleverebbe la cappa di piombo che grava su tutti noi da troppi mesi.

Se invece prevarranno ancora una volta, su entrambi i fronti, le istanze belliciste, volte a ottenere una vittoria totale sul nemico e il suo annientamento, avremo davanti ancora molti mesi, se non anni, di guerra.

Esistono oggi persone coraggiose e lungimiranti come lo furono nella prima metà degli anni ’70 del secolo passato Sadat, Begin e Carter, tutti premi Nobel per la pace?

Il paradosso è servito.


(At the end, english version published on http://www.insightweb.it

Il paradosso è servito. Quel gas che brucia invano alle porte di San Pietroburgo è un po’ la metafora della inanità della politica estera europea.

Dopo sei mesi di guerra tra Russia e Ucraina, di sanzioni sempre più ampie e dure contro Mosca, la situazione sul terreno vede il Donbass all’80% controllato dalle truppe di Putin, il mar d’Azov trasformato in un lago russo, Kherson e Kharkiv periclitanti, per non parlare della centrale atomica di Zaporizhia.  Nel frattempo si calcola che il sistema industriale europeo abbia perduto circa 70 miliardi euro con il blocco dell’interscambio con la Russia (gas escluso).

Il sostegno di USA, UK e UE al governo ucraino dell’ubiquo Zelenski è stato massiccio, sostenuto da una martellante e talvolta stolida campagna di propaganda antirussa.

Difficile reperire altri dati che non siano quelli relativi alle sole brutalità russe. Un po’ come il manifesto rossonero del PD, lo scopo è quello di indurre le opinioni pubbliche occidentali a leggere tutta la vicenda in una logica binaria e a schierarsi senza sfumature, un tempo si diceva senza se e senza ma, da una parte o dall’altra: da quella dei buoni sempre (gli ucraini) o da quella dei cattivi sempre (i russi).

Peccato che la politica sia ben altra cosa, cioè a dire innanzi tutto sia l’arte di conciliare interessi contrapposti per arrivare a un compromesso accettabile per tutte le parti. Interessi che si intersecano anche all’interno dell’Europa, dove c’è, ad esempio, un’Olanda riottosa a mettere un tetto al prezzo del gas (la Borsa gasiera è ad Amsterdam!) e una Germania in forte difficoltà, con il surplus commerciale pressoché azzerato e una minaccia mortale per la grande industria come si dice oggi fortemente energivora.

A tale proposito viene da chiedersi: al di là delle sanguinose apparenze, questa guerra per procura, condotta dagli USA contro la Russia e i suoi disegni di riequilibrio mondiale delle forze, non è forse alimentata oltreoceano anche per indebolire il peso della Germania sulla scena globale e con esso quello della UE, da sempre nel mirino degli Stati Uniti?  La “minaccia tedesca” è stata evidente negli anni precedenti la pandemia, quando la Germania occupava il terzo posto tra le grandi potenze economiche e aveva un surplus commerciale con gli USA di alcune decine di miliardi di euro.  Ecco che il conflitto del Donbass, mantenuto opportunamente acceso, ha rivelato una sua obiettiva utilità nel rimettere al posto (subordinato) che le spetta la UE, scelleratamente allargata ad est, senza alcuna modifica degli statuti comunitari.

Ciò è avvenuto per volere degli Stati Uniti, prontamente recepito dalla élite di governo brussellese, legata alla finanza globale e poco propensa a “fare politica” in senso proprio, se non nelle forme folcloristiche di quella poveretta della von der Leyen, che si veste con la bandiera ucraina un po’ come faceva anni fa Paolo Poli con il nostro tricolore (lui però faceva ridere, lei no).

Quello che stupisce è come le opinioni pubbliche europee non si siano accorte del “gioco”.

Come si fa, ad esempio, a sostenere, come fa l’ineffabile Calenda, che le navi gasiere (chissà perché ce l’ha soprattutto con Piombino!) ci libereranno dalla dipendenza dal gas russo? Ha idea delle quantità di gas liquefatto trasportabile e dei costi annessi? Il gas russo, fino a che si vorrà adoperare questa materia prima, resta per noi senza concorrenti: costa poco (il costo degli impianti è stato pressoché ammortizzato), è disponibile in grandi quantità e rapidamente. Si dice che abbiamo riempito le nostre riserve all’80%, ma non si dice che quelle stesse riserve potranno mantenere in vita il sistema industriale per due, tre mesi al massimo, per di più in inverno.

Davvero crediamo che l’Ucraina possa riconquistare il Donbass e la Crimea? Davvero crediamo che l’Ucraina possa sconfiggere i russi da sola, cioè a dire senza l’intervento diretto della NATO, con le tragiche conseguenze che ne deriverebbero? I casi sono due: o si è molto, molto ingenui o molto, molto cinici. Non si conosce il numero dei caduti ucraini, che è comunque ingente, dei rifugiati all’estero e degli sfollati in patria: si tratta di milioni di povera gente; il sistema infrastrutturale (ferrovie, aeroporti, strade) è largamente compromesso, il debito pubblico ucraino è volato in pochi mesi a oltre il 100% di un PIL già povero (le statistiche anteguerra – vedi il Calendario Geografico De Agostini – parlano di un PIL pro-capite ucraino pari a un terzo di quello russo). Fino a quando l’Europa e gli USA, con la scorta del disastrato governo Johnson, potranno “metterci una pezza” e continuare a sborsare miliardi a fondo perduto in armi e sussidi?

In sintesi:

La strategia di Putin, per chi la sa leggere, è ormai abbastanza chiara: strangolare lentamente l’Ucraina, senza attaccare le grandi città al di fuori del Donbass, in attesa che la forza delle cose (l’inverno) provochi un cambiamento di governo a Kiev.

La strategia di Biden è altrettanto chiara: tenere impegnata la Russia in una guerra di logoramento, stavolta senza mettere in campo truppe americane, ma facendo morire altri al posto loro (la lezione dell’Afghanistan è servita a qualcosa) e nel frattempo indebolire economicamente l’Europa, l’euro, già sceso stabilmente sotto il dollaro, e in particolare la potenza industriale tedesca, in attesa dello scontro decisivo con la Cina.

La strategia dell’Europa? Non pervenuta, se non per balbettii, sottomissioni acritiche al volere di Washington, delega alla NATO della politica estera.

Eppure ci sarebbe spazio per un’azione diplomatica più incisiva e autonoma (basti vedere cosa ha fatto e fa quel gran democratico di Erdohan, capo indiscusso della Turchia, membro della NATO). Certo, è molto tardi e l’implosione dell’Ucraina è alle porte, ma forse si può fare ancora in tempo a organizzare (sul modello della CSCE degli anni ‘70/’80) una grande conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, che affronti i disequilibri politico-strategici del nostro continente, per portarli a un punto di caduta che, senza pifferi e fanfare, raggiunga il miglior risultato possibile per tutti.

Paradox is served: it seems that at the finnish-russian border ten millions euro of gas are burned each day, while in Europe, where the Russian gas comes with the dropper, we are waiting for a tough autumn, with nationwide rationing and worrying outlooks  for industrial system.

The gas that uselessly burns in the outskirts of St. Petersburg represents in some extent a metaphor of the inanity of the European foreign policy.

After six months of war between Russia and Ukraine, of increasingly hard and wide sanctions against Moscow, the situation on the ground sees Donbass in the hands of Russians for 80%, the Azov see converted in a Russian lake, Kherson and Kharkiv seriously endangered, not to speak of the nuclear plant of Zaporizhia. Meanwhile, one can estimate that, with the blockage of the import-export trade with Russia, the European industrial system has lost more than 70 billions euro (besides gas).   

The support of USA, UK and EU to the Ukrainian government of ubiquitous president Zelenski has been massive and backed by a pounding and sometimes sluggish propaganda against Russia. It is very difficult to find any data different from those referring to the Russian brutalities. Just as for the black-red manifesto of PD campaign for the Italian elections in September, the aim is to convince the western public opinions to read the whole event in binary mode: on one side the always-good Ukrainians, on the other the always-bad Russians. 

It is a pity that politics is quite different; first of all politics means to have skills to know how to reconcile opposite interests and to achieve a decent compromise for all those involved. The various interests intersect each other within Europe too; for examples, Netherlands, unwilling to put a price cap to the gas (the gas stock market is in Amsterdam!) and Germany in a deeply difficult situation, with an almost reset commercial surplus  and a mortal threat to the notoriously energy-hungry big industry.

In this regard, it makes you wonder if this “by proxy war”, led by the United States against Russia and its plan for a new global order, is not fostered also to weaken Germany on the world economic scene and, doing so, the EU too, ever since targeted. In the years before pandemics, the “German danger” was evident, when Germany was the third big economic power in the world, with a surplus of billions dollars in the commercial balance.  The Donbass conflict, kept duly burning, has revealed its utility to put back the EU, expanded fiendishly toward east, without any changes in the community regulations. 

US hoped this direction and Brussels elites were ready to approve, so connected to the global finance and very little interested to develop a real European policy as are (aside for the folkloric Ursula von der Leyen, who often dresses herself with Ukrainian flag).

I wonder why the European public opinions do not perceive this “game”.

How can be argued that gas carriers will substitute the Russian gas? Have we an idea of costs to extract natural gas, to liquefy it and to bring it through the seas? As long as we decide to use this commodity, the Russian gas has not competitors: it is cheap and we can dispose of huge amount of it, rapidly and safely. Someone says that our stocks reach up to 80% of our capabilities, but nobody says that those 80% could sustain the industrial system for two, three months at most.

Who can truly believe that Ukraine could win back Donbass and Crimea? Who could believe that Ukraine could defeat Russia alone, without a direct intervention of NATO, with the tragic consequences we can imagine? We do not know the number of Ukrainian soldiers killed in action, neither that of refugees and displaced persons in the country. It consists of millions of poor people; the infrastructural net (railways, airports, roads etc.) is widely jeopardized; the Ukrainian public debt in few months attained more than 100% of GDP – pre-war statistics says that it was already low, only a third of Russian one. How long could US, EU and UK finance non-repayable grants to Ukraine?

To sum up:

1. – Putin’s strategy is clear: to strangle slowly Ukraine, without direct aggressions to the main cities outside Donbass, waiting that time and weather act;

2. – Biden’s strategy is clear: to drain Russian resources through a long conflict, without a direct participation of American soldiers (Afghanistan lesson was apprehended) and in the meantime to weaken Europe, euro – now steadily under the dollar quotation – and first of all the industrial and commercial power of Germany, preparing the confrontation with China;

3. – Europe strategy … not received. We have until now only babblings, an acritical submission to Washington judgments, a full mandate to NATO as to foreign policy.

Nevertheless, we could have the chance of a diplomatic action, which were more effective. Let us observe what Erdohan, a great democrat who rules a powerful NATO country, has done. Of course, we are late. The Ukrainian implosion on the winter threshold is increasingly possible. Anyway, we still have time to organize a general conference about security and cooperation in Europe (the model is the CSCE of the ‘70ies and ‘80ties), aimed to face all the political and strategical imbalances in our continent and to reach a falling point, which, without pipes and drums, could be a satisfying, common point of departure toward a peaceful future.

Combustibili etici


Nella terribile guerra russo-ucraina che stiamo vivendo c’è un fronte non direttamente armato, quello delle sanzioni, che si stanno vieppiù inasprendo e prossimamente estendendo – pare – al comparto energetico, contro una Russia tornata a essere The Evil Empire, “L’Impero del Male”, secondo la definizione che Ronald Reagan dette dell’URSS nel 1983.

In base a questa rinnovata definizione, che sembra trovare sostanza nelle orribili immagini pervenute da Bucha e da altri teatri di guerra, è evidente che il Capo dell’Impero del Male non può che essere l’incarnazione stessa del Demonio, alias Vladimir Putin, “macellaio”, “criminale di guerra”, “pazzo assassino” e così via aggettivando.

Naturalmente, all’Impero del Male si contrappone, giocoforza, l’Impero del Bene, alla cui testa c’è un senescente Joe Biden, alle prese con il perdurante e costante declino dell’egemonia globale statunitense, soprattutto nel settore Asia-Pacifico, il nuovo baricentro della politica mondiale. Si veda da ultimo lo smacco subito dallo stesso Biden nell’incontro di due giorni fa con Narendra Modi, capo del governo indiano, dal quale è uscito a mani – diplomaticamente – vuote.

A provocare quello che sembrerebbe una sorta di riflusso della storia più sanguinosa del Novecento è stata la tragica decisione del presidente russo di invadere l’Ucraina. Decisione sicuramente imperdonabile, che tuttavia andrebbe analizzata – e sperabilmente letta in una futura, inevitabile prospettiva di pace – secondo un paradigma politico e non secondo quello eticistico che la pone al centro di uno scontro tra vizio e virtù, tra buoni e cattivi (gli ucraini sempre e dovunque buoni, i russi sempre e dovunque cattivi e menzogneri).

Tale secondo paradigma è tuttavia largamente prevalente in quella che viene definita “la narrazione” degli eventi  che i nostri mezzi di comunicazione di massa intessono quotidianamente[1].

Volendo comunque seguire la bussola del moralismo semplificatorio tanto caro all’infotainment internazionale, sorgono tuttavia alcune questioni: dove andrebbe collocato il “virtuoso” Occidente, che come tutti sanno ha condotto la guerra in Afghanistan (durata vent’anni, oltre 170.000 morti), la guerra in Iraq (dal 2003 al 2006 150.000 morti solo tra gli iracheni) la guerra nell’ex Jugoslavia (oltre 100.000 morti, in prevalenza musulmani), lo stesso virtuoso Occidente ben rappresentato dall’indimenticabile sguardo bolso e vuoto dei soldati olandesi dell’ONU, incaricati di frapporsi tra serbi e bosniaci musulmani e che a Srebrenitza hanno permesso un genocidio in piena regola (8.000 bosniaci musulmani massacrati a sangue freddo dalle milizie di Milosevic)? Che dire poi del sanguinoso disastro delle Primavere arabe, alimentate (sconsideratamente?) dalla politica di Barack Obama e Hillary Clinton, con le loro centinaia di migliaia di morti e la nascita dell’IS?

Ho sentito dire in tivvù che “sono cose ormai passate”, su cui non vale la pena di tornare quando è sangue vivo ed europeo quello che scorre oggi in Ucraina. È per questo che ci sentiamo in diritto non già di tagliare “politicamente” l’erba sotto i piedi di Putin, ma di fargli la morale? Cosa sono le sanzioni se non un modo eticistico di fare la guerra, un modo che, peraltro, non ha mai funzionato[2]?

Cartina con gli Stati che hanno aderito alle sanzioni anti russe (rosso), corrispondenti sostanzialmente al vecchio blocco occidentale. Tutto l’ex Terzo Mondo, ma anche la Turchia (paesi NATO) non ha aderito. L’isolamento della Russia è visibilmente una chimera.

Non è forse vero che Putin, come del resto altri dittatori in passato, è salito al potere con il consenso maggioritario della popolazione? Che i suoi esecrabili seguaci non sono semplicemente “comparse”, ma persone che la pensano in un modo che noi riteniamo sbagliato e pericoloso? E non dobbiamo sforzarci di sottrargli consenso, non di metterlo in caricatura come un redivivo Ivan il Terribile?

Ma veniamo all’eticità dei combustibili e alle relative sanzioni: il gas e il petrolio russi sono contaminati dal Male e quindi è necessario farne a meno al più presto, anche a costo di pagare molto di più il gas americano (più scadente e peraltro prodotto anche con il fracking, che si sa quanto bene faccia all’ambiente), gas che, data la distanza, non riuscirà mai a coprire le esigenze energetiche del nostro continente, almeno nel breve, medio periodo.

È iniziata così la questua di gas presso i nostri abituali fornitori. Si badi bene, una questua che non sta facendo la UE, priva di qualsiasi iniziativa politica, che non riesce neppure a mettersi d’accordo su un tetto comune al prezzo del combustibile, ma ogni stato per sé, con tutti i rischi connessi di non rispetto dei singoli contratti.

Il gas russo viene da un paese “diabolico”, è vero, ma purtroppo è di buona qualità e costa poco – senza contare la facilità di approvvigionamento (vedi il problema delle navi gasiere, del loro ancoraggio, del pericolo di diventare bersaglio di attentati, ecc.). Ma la libertà, dice il presidente Draghi, val pur bene una riduzione dei consumi … per la climatizzazione! (E le industrie energivore, dove le mettiamo?). Tuttavia, se di libertà si parla, c’è qualcuno che può sostenere in buona fede, ad esempio, una maggiore “eticità” del petrolio e del gas proveniente dalla penisola arabica, dove governano regimi che sono notoriamente un luminoso esempio di democrazia, con decapitazioni sulla pubblica strada, tagli di mani, negazione quotidiana dei diritti universali dell’Uomo? Perché si parla così poco della terribile guerra nello Yemen, condotta con spietata ferocia dall’Arabia Saudita di Bin Salman, con migliaia di morti tra i civili, tra cui numerosissimi bambini? Forse perché è funzionale al contenimento dell’Iran, altra sede del Maligno sulla terra?

Torniamo dunque a ragionare in termini politici e lasciamo perdere il moralismo bianco-nero: stiamo assistendo da un lato alla fine della globalizzazione intesa come “fine della storia”, capace di autoregolarsi in base al funzionamento dei mercati internazionali e dall’altro al riposizionamento delle forze in campo, all’apertura di un processo che condurrà negli anni a venire alla costruzione di nuovi equilibri mondiali.

Poiché la politica è la scienza del trovare il miglior compromesso possibile tra forze e interessi contrapposti, è venuto il tempo di iniziare a pensare a una concertazione su scala planetaria, di indire una nuova Conferenza di Yalta (magari non in Crimea!) o, se si vuole risalire più indietro nel tempo, un nuovo Congresso di Vienna, a cui partecipino tutti gli stakeholder e gli shareholder della politica mondiale.

All’inizio dell’800, grazie al grande tessitore Metternich, si assicurò all’Europa post-napoleonica più di un trentennio di pace. Non abbiamo invece alcun bisogno di organizzazioni permanenti e autorefenziali come l’ONU, la cui conclamata inanità è indiscutibile[3], né di moralisti à la carte, né dello spirito da crociata che sembra animare tanta parte delle mediocri elites che ci governano.


[1] Il perimetro di influenza sulle opinioni pubbliche mondiali di tali mezzi si va peraltro sempre più restringendo attorno alle elites e ai gruppi dirigenti, mentre “gli altri”, ben più numerosi, utilizzano quasi esclusivamente i cosiddetti “social” e, stando almeno ai sondaggi, spesso non condividono le linee politiche dei governi e “protestano” rifugiandosi nell’astensione dall urne.

[2] https://www.ilsole24ore.com/art/usa-l-arma-sanzioni-funziona-solo-meta-AEry36EB

[3] Già una volta la Società delle Nazioni ha fallito il suo scopo ed è stata dissolta nel 1945, non essendo riuscita a evitare lo scoppio del Secondo Conflitto Mondiale: non è forse il caso di procedere allo stesso modo liquidando un’ONU costosa e anacronistica, con i suoi riti obsoleti – il potere di veto dei Cinque “Grandi”?

[pubblicato su http://www.insightweb.it/web/ aprile 2022]