Daniele MANACORDA, “Il triangolo virtuoso – Tre parole chiave per l’archeologia”, Carocci Editore, Roma, 2024, pp. 135.


Non so se in qualche istituto universitario venga impartito l’insegnamento di “filosofia dell’archeologia”. Se così fosse, questo – solo in apparenza – “libretto” di Daniele Manacorda dovrebbe essere inserito tra i testi fondamentali di riferimento.

Riprendendo e approfondendo una parte di quanto già detto in precedenti pubblicazioni, qui si ragiona sullo statuto epistemologico dell’archeologia, della quale si rivendica a buon diritto l’approccio “attuale” allo studio del passato, che fa del dialogo “aperto” con i materiali i suoi fulcri. Già in premessa (p.10) si dice infatti che “la valorizzazione del passato […] è anch’essa una lunga restituzione di senso, che agisce nell’attualità, mai definitiva.”

Il solido costrutto filosofico del libro sta dunque nel suo voler non già ritracciare uno schema “manualistico” predefinito, capace di render ragione senza residui di una disciplina, bensì nel voler mettere al centro dell’indagine il contesto e la relazione, concetti per se sempre cangianti, nello spazio (sopra-sotto) e nel tempo (prima-dopo), che vanno sempre reciprocamente ridefiniti.

Nel primo capitolo (p.11), si dice che l’archeologia “ci propone una delle forme più fantastiche di vivere il tempo, che scorre sempre mutevole in uno spazio che tuttavia persiste”. Si riaffaccia qui quello sguardo “volumetrico” su passato e presente, magistralmente analizzato e sviluppato dall’Autore in “Roma, il racconto di due città”, del 2022, che ci restituisce la complessità del nostro rapporto con la storia nella sua materialità (suggestiva la citazione da A. Carandini dell’archeologo che “reidrata” un fiore disseccato, anche se, nell’ottica di questo libro, appare riduttiva, in quanto presuppone un fiore, una realtà preesistente da reidratare. Realtà che invece si definisce nel corso stesso dell’indagine).

Questo modo di leggere la storia nello spazio e nel tempo ha peraltro suscitato in me un’ulteriore riflessione: e se non fosse il tempo a essere mutevole, bensì lo spazio? In questo senso l’archeologia non farebbe dunque “parlare i morti” (p. 13), ma darebbe voce ai vivi, nostri simili che vivono in altri spazi, così come suggerito dai magnifici montaggi fotografici di Sergej Larenkov riportati nel libro.

Torniamo al testo. Il titolo è tanto accattivante quanto volutamente allusivo. Il triangolo (figura intrinsecamente evocativa quant’altra mai nella nostra cultura, da Platone alla Trinità, alla dialettica hegeliana, fino a Dumézil) entro il quale si vuole racchiudere il senso della pratica archeologica, ha l’ambizione di proporre un paradigma valido non solo per l’archeologia, ma per ogni altra indagine che voglia esplorare il cammino dell’umanità.

Le tre “categorie”, sintetizzabili in “materia (tecnologia)”, “forma (tipologia)”, “tempo (stratigrafia)”, appaiono come momenti di un moto circolare continuo, che le pone in costante relazione reciproca, consentendo a chi le usa di mettersi sulle difficili e spesso oscure tracce del senso.

Non si offenda l’Autore se in questa impostazione ho rinvenuto echi della filosofia crociana dei distinti – qui non quattro, ma tre –  laddove questa, pur riferendosi all’attività dello Spirito, sostiene il libero movimento del pensiero, senza dogmatismi, né finalismi o certezze di individuare un “progresso” unidirezionale della storia. Di qui anche l’universalità, così come Manacorda ce lo presenta, di un paradigma gnoseologico applicabile alla preistoria come all’altro ieri: “Il triangolo virtuoso può operare anche al di fuori di un contesto di ricerca archeologica.” (p.106).

Nel cap. 2 (p. 31) si spiega la natura “virtuosa” del triangolo, “capace di condurre l’archeologo dalle paludi dell’impressione alle strade, magari impervie, ma fruttuose dell’interpretazione”. Emerge qui con chiarezza la dialettica dell’approccio triadico, che, attraverso il metodo, “ha tenuto assieme le tante diverse archeologie”. Correttamente, alla fine del capitolo si sottolinea tuttavia come l’archeologia delle epoche storiche, ovvero quelle in cui sono stati prodotti dei testi scritti, non può limitarsi all’esercizio del triangolo virtuoso, ma debba quantomeno avere “la curiosità di guardare oltre il proprio lussureggiante orticello.” (p.35).

Nei successivi capp. 3 (“Tecnologia”), 4 (“Tipologia”) e 5 (“Stratigrafia”) si percorrono i tre lati (o angoli) del “triangolo virtuoso”, con dovizia di esempi e di illustrazioni, che sviluppano molto efficacemente temi e questioni anche complesse e non familiari a chi non sia cultore della materia e che consentono allo studente agli inizi dei suoi studi archeologici di delinearne un perimetro chiaro, intrinsecamente multi-, pluri- e inter- disciplinare, per usare una terminologia un po’ vecchiotta, ma ancora efficace. In forma piana e pregnante al tempo stesso, si forniscono così punti di riferimento basilari per chi voglia cominciare la carriera di archeologo, sottraendola alla fascinazione – alla “Indiana Jones” – di una disciplina che insegue tesori che, come tali, giacciono sepolti e non attendono altro che di essere riportati alla luce.

Nel 6 capitolo (“Rapporti reciproci”) si torna al cuore del libro, l’interconnessione delle parti che, dall’asse del sintagma (tecnologia, tipologia), si collegano a quello del paradigma (successione stratigrafica). Si passa cioè dall’archeografia (descrizione) all’archeologia (interpretazione): “solo da questo intreccio ‘a tre capi’ trae vigore la ‘fune’ che indirizza e sostiene il passaggio dall’archeografia all’archeologia.” (p. 87).

All’inizio del 7 capitolo una citazione tratta da A.Carandini (La forza del contesto, Bari, 2017) accenna a un altro “triangolo”, quello costituito dalla storia dell’arte, dall’antiquaria e dalla triade manacordiana, qui sussunta nel termine “filologia delle cose” e nel primo paragrafo introduce la topografia (corologia, non corografia!) come ulteriore elemento ineludibile, che tuttavia non inficia la validità del triangolo virtuoso, il quale semmai trova in essa la sua necessaria cornice (archeologia del paesaggio).

Il capitolo 8, (“Al di là del triangolo: il poliedro”) apre ulteriormente la prospettiva, riconfermando gli intenti non definitori del libro, che ha voluto consapevolmente affrontare solo “i primi tre passi” dell’intreccio, lasciando da parte “l’approfondimento degli aspetti culturali, e quindi storici, che orientano e veicolano l’interpretazione archeologica.” (p. 119).  

Particolarmente efficace il paragrafo 8,1, “Il ruolo degli indizi. Qui si sottolinea e si esemplifica la differenza tra indizio e dato, laddove il secondo “funziona” solo se si fa indizio, ovverosia si mette in relazione con altri dati e dà vita a un’ipotesi interpretativa. Molto azzeccati in questo senso gli esempi tratti dalla vexata quaestio della originaria autenticità della Lupa Capitolina e dal rinvenimento dei Bronzi di Riace.

Nel successivo paragrafo, “Opportunità e rischi” si sottolinea ancora una volta il rischio di una visione unilaterale di fenomeni intrinsecamente complessi, nel tempo e nello spazio. I tre rischi qui individuati sono, se sintetizzo correttamente, quelli del classicismo (assolutizzazione del secondo lato del triangolo, la forma), quelli dell’archeologismo (assolutizzazione del terzo lato, il tempo, la diacronia), il tecnicismo (assolutizzazione del primo lato, la materia, la tecnologia).

Nel paragrafo conclusivo (8.3, “Scienza, archeologia, storia”), si ribadisce il senso ultimo dell’intero libro: “La storia è un poliedro pieno di sfaccettature: è impossibile racchiuderla nel campo visivo di un unico cannocchiale” (p. 129).

Uno itinere non potest perveniri ad tam grande secretum, verrebbe da dire con le parole di Simmaco (Relatio III, 10) a me particolarmente care.

Una lezione di libertà, di curiosità, di ascolto e di dialogo.

Ragione e Giustizia: il partito di una sinistra che ritrova le sue radici


                                              

Sahra WAGENKNECHT, Die Selbstgerechten, Campus Verlag, Frankfurt/New York, 2022, p. 409 (ed.italiana, Contro la sinistra neoliberale, pref. V. Giacchè, trad. Alessandro de Lachenal, Giovanni Giri, Elisa Leonzio, Fazi Editore, 2022).

[with english version at the bottom]

[published also on http://www.insightweb.it/web/ april 2024]

Il libro risale ormai a due anni fa, ma ritengo importante riproporne qui la lettura, in vista delle elezioni europee, alle quali l’autrice si presenta candidata con il suo Bündnis (BSW, Bündnis – Vernunft und Gerechtigkeit), “Alleanza Sahra Wagenknecht” – Ragione e Giustizia), fondato appena all’inizio del 2024, ma che i sondaggi danno già al 6% di media nazionale – con una punta del 23% nel Land Sachsen-Anhalt – sopra Die Linke, ferma al 4,5% e ben oltre la liberal-democratica FDP (3%). BSW ha appena raggiunto 18.000 firme di sottoscrittori a fronte delle 4.000 necessarie per la presentazione della lista.

 In Italia è purtroppo ancora impossibile votare BSW, perché, come ha detto giustamente Lucio Caracciolo, le elezioni europee oggi servono solo a misurare i rapporti di forza interni ai partiti e alle coalizioni nazionali. Una sorta di mega sondaggio costosissimo (non per niente esperito con un sistema proporzionale puro). Così il PE fa e disfa maggioranze e legifera senza che le opinioni pubbliche dei singoli stati possano esercitare un effettivo controllo democratico, lasciando di conseguenza campo libero alle lobbies.

Chi è che in Italia conosce i nomi dei commissari europei lettoni o estoni, che pure concorrono a determinare le nostre politiche nazionali?

Né esiste da noi una formazione di sinistra apparentabile al BSW. Facendo un parallelo tra Italia e Germania, il PD occupa lo spazio politico della SPD, l’AVS corrisponde grosso modo ai Grüne e alla Linke tedesche, mentre la sinistra calendiana di “Azione” insiste in buona parte con l’area della Lifestyle Linke che è il bersaglio principale del libro della Wagenknecht. Resta il M5S, la cui collocazione non trova dei confini precisi, funzionando ancora da “vasca di laminazione” delle piene di malcontento. Ed è forse qui, in questo bacino magmatico che potrebbe innestarsi un movimento politico analogo al BSW, capace di dare senso e obiettivi a una forza che voglia coltivare una prospettiva progressista con solide fondamenta culturali.

Nata nella DDR nel 1969, filosofa ed economista, Sahra Wagenknecht ha militato nella Freie Deutsche Jugend, l’organizzazione giovanile della SED. Esponente di spicco della Linke, ne è fuoriuscita per evidenti dissensi sulla linea politica. Il libro, il cui titolo tedesco “Die Selbstgerechten” è stato tradotto nell’edizione italiana con una perifrasi, “Contro la sinistra neoliberale” e che invece personalmente tradurrei “I compiaciuti” (naturalmente di sé), sviluppa un’ampia riflessione sul ruolo che assumono oggi le forze politiche che si definiscono “neoliberali di sinistra”.

Un episodio narrato quasi all’inizio del testo riflette icasticamente il cuore della questione: ad agosto del 2020 la Knorr annunciò che la classica Zigeuner Sauce (“salsa alla zingara”)per evidenti motivi di correttezza politica, si sarebbe chiamata Paprikasauce Hungarische Art (“salsa alla paprika alla maniera ungherese”). Grande vittoria dei progressisti woke. Peccato che nel contempo ai 550 dipendenti dello stabilimento Knorr di Heilbronn venissero imposte condizioni di lavoro ben peggiori delle precedenti (sabato lavorativo, diminuzione del salario iniziale e blocco degli aumenti).

Ecco dunque all’opera quella che nel libro viene definita la “Lifestyle Linke” di cui si diceva poc’anzi, quella sinistra “gentrificata”, che non si spende più per la coesione sociale (Zusammenhalt), per il recupero del senso di una comune appartenenza (Gemeinsinn), per la riaffermazione del ruolo centrale dello Stato nazionale in settori-chiave quali, ad esempio, la sanità e la casa, ma che si è ritirata  nei suoi ben muniti fortilizi urbani (la “sinistra ZTL”, si direbbe in Italia) e ha finito per essere in buona sostanza il partito degli Akademiker, come li chiama l’autrice, dei ceti garantiti, concentrata sul fronte delle libertà individuali, del cosmopolitismo, dei diritti civili, delle gender theories, più sulla difesa delle diversities che non sulle questioni fondamentali della giustizia sociale e della lotta alle diseguaglianze.

Un tale atteggiamento ha lasciato campo libero alle destre “incolte”, populiste e nazionaliste, in crescita in tutta Europa (vedi da ultimo il Portogallo) non tanto per le soluzioni concrete che propongono quanto per la capacità che hanno di offrire un principium individuationis alle masse sempre più consistenti di poveri ed emarginati e spesso anche ai ceti piccoli e medi, che temono per il proprio futuro e si sentono minacciati di retrocessione nella scala sociale a causa degli sviluppi incontrollati della globalizzazione.  

Wagenknecht rivolge altresì critiche pungenti, ad esempio, ai protagonisti “apocalittici” dei Fridays for Future, che si mostrano affatto insensibili ai temi economico-sociali della transizione, ai Grüne, dogmatici detentori di un astratto “bene” del pianeta, ma soprattutto alla neo-socialdemocrazia alla Schröder che, con la sua “Agenda 2010” e lo Harz IV, ha smantellato lo stato sociale e precarizzato milioni di lavoratori.  

Eppure è davanti agli occhi di tutti il fatto che “le magnifiche sorti e progressive” della globalizzazione successiva alla deflagrazione del blocco sovietico si sono rivelate ben altre rispetto all’ ottimistica “fine della storia” e al trionfo planetario della libertà e della giustizia. Dopo poco più di una generazione non possiamo che constatare la scomparsa della politica, fagocitata da un’economia liberista senza più freni, la nascita di enormi e incontrollate potenze sovrastatuali e la crescita stratosferica delle diseguaglianze.

In Italia, ad esempio, dove i salari sono fermi dal 1991, il 5% della popolazione detiene il 46% della ricchezza totale; quarant’anni fa il rapporto tra salario operaio e retribuzione da dirigente era di 1: 45; nel 2020 il rapporto è passato a 1: 649.

Il Gegenentwurf (“controproposta”) di Wagenknecht è quella di una sinistra che riprenda a fare il suo mestiere, che torni in primis a parlare di lavoro e di Welfare e che riconquisti la rappresentanza dei ceti più deboli, degli operai e dei lavoratori dipendenti, come pure del capitale d’impresa, oggi gravemente minacciato da un liberismo sfrenato e dai processi incontrollati di finanziarizzazione economica, nonché dall’estendersi dei monopoli globali (i Big Five, almeno due dei quali, Apple e Microsoft,  hanno un bilancio molto superiore a quello dell’Italia).

Si parla spesso della nostra come di una “società aperta”, ma se è vero che sono crollate le mura delle vecchie poleis, è altrettanto vero che sono aumentate a dismisura le pareti interne, con la conseguente perdita del Gemeinsinn di cui parla l’autrice nel sottotitolo del libro. I diversi strati sociali non si “frequentano” più, l’alto incontra il basso solo quando se ne serve per attività sussidiarie e di basso profilo (consegna di pacchi e cibi, assistenza alla persona). È in atto inoltre un fenomeno di feudalizzazione dei rapporti sociali, in cui le famiglie di appartenenza determinano sempre più il futuro dei figli. Né va trascurato il fenomeno esteso a tutta l’area OCDE del cosiddetto lavoro povero: gli occupati aumentano di numero, ma la disponibilità di risorse diminuisce.

Take back control è il titolo di un paragrafo del libro (p. 295), lo slogan vittorioso della Brexit.

Accusata di aver fondato una sorta di AfD di sinistra, l’autrice sottolinea la necessità di reimpossessarsi del controllo democratico delle decisioni europee, oggi lasciate alle élites burocratiche brussellesi e alle lobbies degli shareholder e di conseguenza di difendere le specificità nazionali. Da qui la sua visione di una futura unione politica europea in un quadro non già federale (un unico grande superstato europeo), ma confederale, che, all’interno della futura entità statuale europea salvaguardi la fisionomia storico-politica dei singoli paesi, poiché gli stati nazionali sono gli unici in grado di produrre politiche autenticamente sociali.

Estranea al mainstream, Wagenknecht affronta lucidamente temi scottanti come quello legato all’immigrazione, che rischia di minare la coesione sociale e di fronte ai quali la Lifestyle Linke degli Akademiker tende ad assumere atteggiamenti neo-illuministi e moraleggianti, trascurandone l’impatto che si riverbera soprattutto sui ceti meno favoriti delle singole comunità nazionali europee. 

L’alternativa, secondo l’autrice, è la mera sopravvivenza di una sinistra fortemente minoritaria, foglia di fico delle vergogne di un liberismo selvaggio e distruttivo.

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The book dates back to two years ago, but I think it is important to re-read it here, in view of the European elections, in which the author is running as a candidate with her Bündnis (BSW, Bündnis – Vernunft und Gerechtigkeit), founded just at the beginning of 2024, but which the polls already show at 6% on the national average – with a peak of 23% in the Land Sachsen-Anhalt – above Die Linke, stable at 4.5% and well above the liberal-democratic FDP (3%). BSW has just reached 18,000 subscriber signatures compared to the 4,000 needed to present the list.

  In Italy, it is unfortunately still impossible to vote for BSW, because, as Lucio Caracciolo rightly said, the European elections today only serve to measure the balance of power within national parties and coalitions. A sort of very expensive mega survey (not by chance carried out with a pure proportional system). Thus, the EP makes and unmakes majorities and legislates without the public opinions of individual states being able to exercise effective democratic control, consequently leaving the field open to lobbies.

Who in Italy knows the names of the Latvian or Estonian European commissioners, who also contribute to determining our national policies?

Nor does there exist a left-wing formation comparable to the BSW in our country. Drawing a parallel between Italy and Germany, the PD occupies the political space of the SPD, the AVS roughly corresponds to the German Grüne and Linke, while the Calendian left of “Action” largely insists on the area of the Lifestyle Linke, which is the main target of Wagenknecht’s book. The M5S, whose position has no precise boundaries, still functions as a “lamination tank” for the floods of discontent. It is perhaps here, in this magmatic basin that a political movement similar to the BSW could arise, capable of giving meaning and objectives to a force that wants to cultivate a progressive perspective with solid cultural foundations.

Born in the GDR in 1969, philosopher and economist, Sahra Wagenknecht played in the Freie Deutsche Jugend, the youth organization of the SED. Already leading member of the Linke, her separation is due to obvious disagreements on the political line. The book, whose German title “Die Selbstgerechten” was translated in the Italian edition with a periphrasis, “Against the neoliberal left” and which I would personally translate as “The Complacents” (naturally about oneself), develops a broad reflection on the role that the political forces that define themselves as “left-wing neoliberals” assume today.

An episode narrated almost at the beginning of the text vividly reflects the heart of the matter: in August 2020, Knorr announced that the classic Zigeuner Sauce (“Gypsy sauce”), for obvious reasons of political correctness, would be called Paprikasauce Hungarische Art (” Hungarian-style paprika sauce”). Big win for woke progressives. It’s a shame that at the same time, the 550 employees of the Knorr factory in Heilbronn were subjected to working conditions that were far worse than the previous ones (Saturday working, reduction in starting salary and block on increases).

So here is at work what in the book is defined as the “Lifestyle Linke” mentioned earlier, that “gentrified” left, which no longer spends itself on social cohesion (Zusammenhalt), on recovering the sense of a common belonging (Gemeinsinn), for the reaffirmation of the central role of the national State in key sectors such as, for example, healthcare and housing, but which has retreated into its well-equipped urban fortresses (the “left ZTL”, one might say in Italy) and ended up being essentially the party of the Akademiker, as the author calls them, of guaranteed classes, concentrated on the front of individual freedoms, cosmopolitanism, civil rights, gender theories, more on the defense of diversity than on the fundamental issues of social justice and the fight against inequalities.

Such an attitude has left the field open to the “uncultivated”, populist and nationalist Right, growing throughout Europe (see most recently Portugal) not so much for the concrete solutions that proposes but for the ability they have to offer a Principium individuationis to the masses increasingly consisting of the poor and marginalized and often also the small and middle classes, who fear for their future and feel threatened with relegation in the social ladder due to the uncontrolled developments of globalization.

Wagenknecht also addresses scathing criticism, for example, to the “apocalyptic” protagonists of “Fridays for Future”, who appear to be completely insensitive to the economic-social issues of the transition, to the Grüne, dogmatic holders of an abstract “Good” of the planet, but above all to the neo -social democracy like Schröder who, with his “Agenda 2010” and Harz IV, dismantled the welfare state and made millions of workers more precarious.

Yet it is before everyone’s eyes that the “magnificent and progressive fortunes” of globalization following the explosion of the Soviet bloc turned out to be very different from the optimistic “End of History” and the planetary triumph of freedom and justice. After just over a generation, we can only note the disappearance of politics, swallowed up by an unbridled liberal economy, the birth of enormous and uncontrolled supra-state powers and the stratospheric growth of inequalities.

In Italy, for example, where wages have been stagnant since 1991, 5% of the population holds 46% of total wealth; forty years ago, the ratio between worker’s salary and manager’s salary was 1:45; in 2020 the ratio increased to 1:649.

Wagenknecht’s Gegenentwurf (“counterproposal”) is that of a left that goes back to doing its job, that goes back first and foremost to talking about work and welfare and that regains the representation of the weakest classes, of workers and employees, as well as business capital, today seriously threatened by unbridled liberalism and uncontrolled processes of economic “financialization”, as well as by the expansion of global monopolies (the Big Five, at least two of which, Apple and Microsoft, have a balance sheet much higher than that of Italy).

We often speak of ours as an “open society”, but if it is true that the walls of the old poleis have collapsed, it is equally true that the internal walls have increased enormously, with the consequent loss of the Gemeinsinn that the author talks about in the subtitle of the book. The different social strata no longer “hang out” with each other; the high meets the low only when they use them for subsidiary and low profile activities (delivery of parcels and food, personal assistance). Furthermore, there is an ongoing phenomenon of feudalization of social relationships, in which the families to which they belong increasingly determine the future of their children. Nor should the phenomenon of the so-called poor work, which extends throughout the OECD area, be overlooked: those employed increase in number, but the availability of resources decreases.

Take back control is the title of a paragraph in the book (p. 295), the victorious slogan of Brexit.

Accused of having founded a sort of left-wing AfD, the author underlines the need to regain democratic control of European decisions, today left to the Brussels bureaucratic elites and shareholder lobbies and consequently to defend national specificities. Hence his vision of a future European political union in a framework that is not federal (a single large European “Super-state”), but confederal, which, within the future European state entity, safeguards the historical-political physiognomy of the individual countries, since the national states are the only ones capable of producing authentically social policies.

Stranger to the mainstream, Wagenknecht lucidly tackles burning issues such as that linked to immigration, which risks undermining social cohesion and in front of which the Akademiker’s Lifestyle Linke tends to adopt neo-enlightenment and moralizing attitudes, neglecting the impact that reverberates especially on the less favored classes of the individual European national communities.

The alternative, according to the author, is the mere survival of a strongly minority left, a fig leaf of the shame of a wild and destructive liberalism.

Più armi!


[english version at the bottom]

Ci risiamo. La dama dal tailleur gialloblu, Spitzkandidatin della CSU alle prossime elezioni europee, è tornata sul terreno a lei più congeniale, quello degli armamenti.

Già ministro della difesa della Germania dal 2013 al 2019, con risultati quantomeno discutibili (il peggior ministro secondo Martin Schulz, come abbiamo già scritto qui il 3 marzo 2022), si è distinta in ogni occasione per l’atteggiamento bellicista e di scontro frontale con la Russia di Putin.

Sempre a braccetto con il piccolo oligarca Zelenski, perennemente in divisa e questuante intemerato di armi, armi, armi, che da buon democratico  non si perita di stilare liste di “putiniani” da fornire agli alleati europei perché li zittiscano (e costui dovrebbe guidare l’Ucraina nella UE!), ora che la guerra in Ucraina si sta drammaticamente sempre più trasformando in una inutile strage e che dovrebbe essere evidente a tutti che la Russia non tornerà mai sulla linea di confine ante 24 febbraio 2022, che fa la Nostra? Lancia un piano europeo “di difesa” e lo paragona a quello che ha consentito di affrontare con successo la pandemia. Covid e Russia sullo stesso piano.

Le deliranti parole di Macron (la sua popolarità è oggi al 25%) su un possibile invio di truppe francesi in Ucraina, anche se “al di qua della soglia di belligeranza” (E che ce le mandi a fare? Mah!), l’incapacità di Biden di dettare una linea politica qualsiasi nei diversi scenari mondiali (l’ultima immagine di “Sleepy Joe”, come lo chiama Trump, che lecca un grande cono gelato e farfuglia su un cessate il fuoco dato per certo a Gaza e smentito da lì a poche ore), gli atroci massacri di Hamas del 7 ottobre 2023 e la sanguinaria, spropositata risposta del governo Netanyahu, il prossimo referendum in Transnistria sulla richiesta della regione di entrare a far parte della Federazione Russa, sono “piccoli” fuochi che potrebbero appiccare il grande incendio.

Tutto ciò avrebbe dovuto indurre von der Leyen a intraprendere un’azione decisa e concordata della UE sul piano diplomatico, desertificato in questi ultimi anni, per assicurare una pace duratura sul Continente e non già a spingere sul pedale del riarmo (forse le sfugge che la Russia, che pure fa parte dell’Europa, possiede il secondo arsenale atomico del globo).

Ma tant’è. La lobby delle armi è potentissima e il Parlamento Europeo, privo di una forte validazione democratica, si piega alle logiche del mercato. Se le elezioni europee non daranno vita a una nuova maggioranza, prepariamoci a vedere fiumi di risorse incanalate verso l’industria bellica, che già nei precedenti tre anni ha accumulato ingentissimi profitti.

Del resto, come abbiamo detto all’inizio, la nostra Ursula si muove come un pesce nell’acqua in questi ambienti. Lo provano le sue precedenti esperienze quando era a capo della Bundeswehr, non prive di opacità e accuse di familismo (oltre all’intervento citato su questo blog si veda The aristocratic ineptitude of Ursula von der Leyen di Peter Kuras in “FP”, 21 aprile 2021).

Non c’è che sperare che il Parlamento rigetti il piano e converta le risorse a esso destinate alla restaurazione di un autentico Welfare europeo, oggi enormemente carente.

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Here we are again. The lady in the yellow-blue suit, Spitzkandidatin of the CSU in the next European elections, has returned to the field most congenial to her, that of armaments.

Former defense minister of Germany from 2013 to 2019, with questionable results (“the worst minister” according to Martin Schulz, as we already wrote here on 3 March 2022), she stood out on every occasion for her bellicose attitude and head-on clash with Putin’s Russia.

Always arm in arm with the little oligarch Zelenski, perpetually in uniform and a steadfast beggar of weapons, weapons, weapons, who as a good democrat does not hesitate to draw up lists of “Putinians” to provide to the European allies to silence them (and he should lead the ‘Ukraine in the EU!), now that the war in Ukraine is dramatically turning more and more into a useless massacre and that it should be clear to everyone that Russia will never return to the border line before 24 February 2022, what does ours do? She launchs a European “defense” plan and compare it to the one that made it possible to successfully deal with the pandemic. Covid and Russia on the same level.

Macron’s delirious words (his popularity is now at 25%) on a possible sending of French troops to Ukraine, even if “this side of the threshold of belligerence” (And what are you sending them there for?), Biden’s inability to dictate any political line in the various world scenarios (the latest image of “Sleepy Joe”, as Trump calls him, licking a large ice cream cone and babbling about a ceasefire that was assumed for certain in Gaza and denied a few hours later), the atrocious Hamas massacres of 7 October 2023 and the bloody, disproportionate response of the Netanyahu government, the next referendum in Transnistria on the region’s request to join the Russian Federation, are “small” fires that could start the big fire.

All this should have led von der Leyen to undertake decisive and concerted action by the EU on the diplomatic level, which has been deserted in recent years, to ensure lasting peace on the Continent and not to push the rearmament pedal (perhaps she is unaware that the Russia, which is also part of Europe, has the second largest atomic arsenal in the world).

But that’s it. The gun lobby is very powerful and the European Parliament, lacking strong democratic validation, bends to the logic of the market. If the European elections do not give rise to a new majority, let us prepare to see rivers of resources channeled towards the war industry, which has already accumulated huge profits in the previous three years.

After all, as we said at the beginning, our Ursula moves like a fish in water in these environments. This is proven by his previous experiences when he was head of the Bundeswehr, not without opaqueness and accusations of familism (in addition to the speech cited on this blog, see The aristocratic ineptitude of Ursula von der Leyen by Peter Kuras in “FP”, 21 April 2021).

We can only hope that Parliament rejects the plan and converts the resources allocated to it towards the restoration of an authentic European welfare system, which is currently enormously lacking.

Le ragioni dell’altro, le ragioni della politica


Un articolo di Giuseppe CAPPELLO

Rabin e Arafat a Oslo nel settembre del 1993
Due ragazzi del villaggio israelo-palestinese di Neve Shalom

Abstract: The content provides a thought-provoking perspective on the Israeli-Palestinian conflict and its implications for democracy. It highlights the need to move beyond the simplistic binary narratives and address the underlying issues of social justice and peace. The analysis of the role of democracy in the context of contemporary capitalism is particularly insightful. Overall, the content offers a valuable contribution to the ongoing debate.

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Abbiamo visto scene agghiaccianti discendere dall’attacco di Hamas al rave party dei giovani israeliani così come al kibbutz di Kfar Aza; di seguito, le scene agghiaccianti hanno investito Gaza e ci dobbiamo preparare a vederne di peggiori nei prossimi giorni.

Di fronte a tutto ciò abbiamo due possibilità.

Cadere nell’altrettanto agghiacciante ‘logica’ di contrapporci nella polarizzazione tra filopalestinesi e filoisraeliani o, più umanamente e razionalmente, comprendere che nell’una e nell’altra realtà politica il profilo delle vittime e dei carnefici va inquadrato secondo una prospettiva diversa. Vi è infatti la possibilità di intendere come i carnefici e le vittime non debbano essere ricondotti all’una e all’altra realtà politica ma nell’una e nell’altra realtà politica. Nell’una e nell’altra realtà politica vi sono, infatti, sia agli atti della storia che a quelli della cronaca, un fronte estremista e un fronte moderato.

Ripercorrere qui gli atti della storia sarebbe lungo e molto complesso. Ci sono tuttavia dei punti fermi che si possono più velocemente richiamare proprio nell’ottica di una intelligenza storica della cronaca.

E’ infatti proprio la storia della questione israelo-palestinese a dirci come quelle figure politiche del mondo arabo e del mondo israeliano che abbiano lavorato a una soluzione del conflitto in questione siano cadute assassinate proprio a opera dell’estremismo interno presente in una parte e nell’altra. Citeremo solo i nomi di Sadat (1981) da una parte e di Rabin (1995) dall’altra. Una verità storica a cui aggiungeremo alcuni altri due punti fermi da tenere presenti: la proclamazione unilaterale della nascita dello Stato israeliano ad opera di Ben Gurion nel 1948 a dispetto dello stesso originario piano dell’ONU (Shimon Peres lo chiamava “il peccato originale di Isreaele”) e l’inconcepibile ritiro di Arafat dall’accordo di Camp David con Barak nel 2000 (io ne parlerei nei termini di un contropeccato originale palestinese).

Lasciando le orme della storia per venire ai passi della cronaca, aggiungeremo i tre elementi che hanno portato alla radicalità dello scontro che oggi riappare improvvisamente sotto i nostri occhi. La colonizzazione massiva israeliana in Cisgiordania negli ultimi venti anni e la radicalizzazione delle posizioni palestinesi che possono essere individuate nella cacciata stessa di Fatah dalla striscia di Gaza per opera di Hamas (2007); il terzo elemento della questione è il disimpegno degli Stati Uniti e degli stessi popoli arabi nell’opera di mediazione della questione. E qui siamo di nuovo di fronte al bivio fra il prendere animosamente parte in una disputa che veda come egemoniche e originarie le responsabilità di Israele o dei Palestinesi. Cosa che non ci aiuta a capire ma soprattutto non ci aiuta ad agire per quanto ognuno possa agire a dispetto del fatto che non si vedono attori neanche a livello dei più grandi organismi statali e sovrannazionali del pianeta.

Capire e agire. E’ una strada, qualora la vogliamo intraprendere, che ci porta dalla più circoscritta questione israelo-palestinese al cuore dell’Europa e degli Stati Uniti. E ci fa porre un interrogativo: la democrazia come l’abbiamo conosciuta può essere ancora l’involucro politico dentro cui il capitalismo è nato e si è sviluppato? O la crudezza del capitalismo contemporaneo sta facendo implodere le nostre stesse istituzioni democratiche? Perché qui ciò che sembra di più venire alla luce dal microcosmo israelo-palestinese fino all’intero sistema dei nostri Stati occidentali è l’incapacità della politica a mediare e a contenere la volontà di potenza delle soggettività economiche.

Su questa strada gli indizi ci vengono proprio dagli ultimi accordi che dovevano essere portati a compimento fra Israele e l’Arabia Saudita. Si tratta degli accordi di Abramo che, a fronte di un’irriducibilità monadica degli Stati in questione, ci hanno fatto vedere come sul terreno dell’economia le finestre delle appunto più irriducibili monadi politiche, teologiche e culturali, si aprano magicamente. Onde il pensiero che quello che non si realizza per i popoli e per i poveri è già una realtà di fatto fra le élites e per i ricchi.

Dividersi tra filoisraeliani e filopalestinesi è quanto di più sciocco si possa fare. Forse è venuto il tempo di recuperare, qui si radicalmente, le prospettive della giustizia sociale e della pace dentro cui una capacità d’intelligenza politicista può riprendere fiato nell’apnea di una volontà di potenza economicistica che al giorno d’oggi permea individui e Stati e rischia di portarci, oltre a conflitti interiori di ordine esistenziale e importazione di modelli autocratici lì dove diciamo di esportare la democrazia, fino sulle soglie di una nuova guerra mondiale «fra persone che si uccidono senza conoscersi per gli interessi di persone che si conoscono ma non si uccidono».

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Caro Professore,

questo suo intervento sulla “questione israelo-palestinese” mi pare affatto condivisibile e utile per corroborare un dibattito altrimenti ossificato e semplificato, secondo la logica del bianco-nero tanto cara alla comunicazione di massa odierna. Per questo la ringrazio di avermi consentito di pubblicarlo anche sul mio blog, oltre che su “Domani”.

Tra i tanti spunti di riflessione che lei ci offre mi pare particolarmente interessante – anche per collocare la suddetta questione nel dovuto contesto – quello sulla democrazia come “involucro” del capitalismo attuale.

Come ho avuto già modo di scrivere, il 1989, la caduta del Muro di Berlino e il susseguente disfacimento dell’URSS e del blocco sovietico, non hanno secondo me significato la “fine della Storia”, ma la “fine della Politica”, il predominio assoluto degli “animal spirits” di keynesiana memoria. Quella che lei definisce “la crudezza del capitalismo contemporaneo” è in realtà l’essenza stessa del sistema che, non più costretto a mediare i propri interessi con quelli di altri (e in questo la presenza di un blocco economico e politico antitetico aveva una sua precisa funzione), ha raggiunto una condizione di “purezza” mai vista prima. I segni? Un soggettivismo senza più limiti, la centralità assoluta dei processi di arricchimento (Enrichissez-vous! Diceva Guizot), l’abisso apertosi tra il basso e l’alto (Israele, PIL/ab. 43.000 $, Territori Palestinesi PIL/ab 3.500 $) e tanto altro ancora.

 E la democrazia – aggiungerei l’aggettivo “liberale”? Un involucro, appunto, una “sovrastruttura” come si sarebbe detto un tempo.

Verissimo quello che lei dice: il tragico microcosmo israelo-palestinese è specchio dell’assenza della politica (vedi il sempre più fantasmatico diritto internazionale – Hegel ha avuto la meglio su Kant –  la patente inutilità dell’ONU, con le sue costosissime truppe di interposizione che al primo segnale di guerra si ritireranno), Tale assenza, voluta e perseguita, viene intesa da molti come l’eliminazione di un mero intralcio al dispiegarsi delle forze vitali dei popoli in un mondo globalizzato. Da qui la conseguente, grave disaffezione rispetto alle rappresentanze elette – sulla quale si spargono lacrime di coccodrillo –  e il sempre più frequente esplodere di atti rabbiosi e distruttivi o di movimenti estremi pre-moderni. Da qui la sanguinosa illusione che il conflitto tra palestinesi e israeliani sia una sorta di “arcaismo”, un relitto del passato che la modernità saprà risolvere in automatico.

Gli accordi di Abramo, di cui si è molto parlato, sono solo apparentemente “un atto politico”, essendo in sostanza un accordo economico tra potentati di vertice, dalle credenziali democratiche dubbie, che sono ben lontani dal riflettere il pensiero delle rispettive opinioni pubbliche.

La terza guerra mondiale a rate, di cui parla papa Francesco, sta diventando una realtà. Speriamo che, dopo gli acconti, non si giunga al saldo finale.

Suo.

Freud era un complottista?


Abstract:

The content delves into the use of the term “complottismo” and the simplification of reality in public discourse. It also addresses the tendency to replace historical investigation with propaganda and the dominant neo-Enlightenment perspective. There is a mention of the Ukraine conflict and the labeling of those who seek to understand its complexities as “Putinists”. The content concludes by discussing the fragmentation of societies and the importance of grounding individuals in their history.   Overall, the content provides a thought-provoking analysis of the use of conspiracy theories and the oversimplification of complex issues.

[English version in http://www.insightweb.it/web/content/was-freud-conspiracy-theorist%5D

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Nel dibattito pubblico, sempre più ossificato e costruito con slogan, frasi fatte, pezzi di discorso assemblati acriticamente, una delle parole più usate è “complottismo”.

Adoperata come un passe-partout, serve a stigmatizzare ogni lettura, ogni interpretazione che tenti di vedere cosa succede sotto la superficie degli eventi.

Nella vulgata giornalistico-televisiva gli accadimenti, come i documenti, “parlano di per sé”, sono “chiari”, “inequivoci”; chi tenta di scavarvi sotto – come la celebre “vecchia talpa” – è assimilabile a un romanziere d’appendice, creatore di congiure fittizie e di società segrete farlocche.

Dunque bando a ogni indagine “che si allontani dai fatti”, come se “i fatti” esistessero in quanto tali. Eppure questo è il sottinteso che passa nella comunicazione mainstream.

Già Tacito parlava secoli fa degli “arcana imperii”, i segreti del potere, che andavano indagati sotto la superficie, se si volevano comprendere gli eventi. Prima di lui Tucidide distingueva tra cause occasionali e cause vere e sulla sua scia Polibio, che distingueva tra pròphasis (causa apparente), archè (inizio), e aitìa (causa reale).

 Complottisti anche loro?

Il fatto è che all’indagine storiografica si è sostituita largamente la propaganda, come si vede nel caso della guerra in Ucraina, che impedisce di analizzare il conflitto alle sue radici e bolla come “putinisti” tutti coloro i quali cercano di capire le differenti stratificazioni che hanno condotto al rovinoso (soprattutto per l’Europa) scontro tra Russia e NATO.

Tale atteggiamento di semplificazione e di accettazione della realtà “così com’è”, in cui il bianco si alterna al nero senza sfumature, è peraltro in piena sintonia con la tendenza neo-illuminista oggi largamente dominante, secondo la quale alcuni termini quali, ad esempio, “democrazia”, “diritti della persona”, “principi morali” sono universali sottratti al flusso della Storia che pure li ha concretamente prodotti.

Ed ecco che quando si parla di democrazia, nei fatti si intende “democrazia liberale”, ovvero quella forma di governo politico che è nata nel seno della nostra cultura due secoli fa circa, dopo un lavorio millenario e con mille sfumature e che noi vogliamo bellamente “esportare” in Cina, in Africa, dovunque, senza tener minimamente conto della storia di quei paesi.  Perdendo per strada l’aggettivo, la nostra forma di democrazia diventa dunque la democrazia tout-court.

Paul Ricoeur definì Marx, Nietzsche e Freud “i maestri del sospetto”; oggi questi stessi filosofi, se andassero in televisione, in qualche talk-show, sarebbero di sicuro etichettati come “i maestri del complotto”.

Frantumare le società in grumi di atomi a se stanti, tenuti assieme da principi a-dialettici, indiscutibili e astratti, soddisfa le esigenze dell’attuale modello di sviluppo, che mal sopporta interpretazioni complesse, capaci di radicare gli individui nella loro storia.

Isolando gli individui, negando loro un’identità concreta, surrogata dall’ideologia e della falsa coscienza, li si rende malleabili e intercambiabili sul mercato globale.

Due Libri su Roma


Carlo PAVOLINI (*), Che fare dei Fori?, Robin Edizioni, Torino 2022, pp.180


Argomento del libro è quella zona centrale di Roma che va da piazza Venezia al Colosseo e che comprende i resti monumentali dei grandi Fori della città antica (il Foro romano e quelli imperiali), sottoposta da secoli a distruzioni e a mutamenti d’uso talvolta drammatici.

Qui si parla in particolare degli esiti dell’intervento mussoliniano che nel 1932 condusse al tracciamento e alla costruzione del grande asse di via dell’Impero e che, pur restando quello di maggior impatto sulla città (la distruzione della collina della Velia ne è l’esempio) non fu il primo.

Leggendo il libro si ha infatti la possibilità di contestualizzare, di collocare nel tempo e nello spazio la cosiddetta “questione dei Fori”, che non è nata agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso, ma cha ha le sue radici almeno un secolo prima, quando Roma divenne capitale d’Italia e si trovò di fronte alla necessità di “creare una capitale e disfare una città”[1]. Basti pensare solo allo sventramento incompiuto di via Cavour, che tanto poco piacque a Sigmund Freud, il quale, dovendola attraversare per recarsi a visitare San Pietro in Vincoli e il Mosè michelangiolesco, la definì “una strada infelice”[2].

Scritto con encomiabile chiarezza e rispetto per il lettore, il libro è ricco di riferimenti bibliografici e di spunti suggestivi senza mai assumere un tono accademico, ma quasi di conversazione, che aiuta anche chi non è un addetto ai lavori a sbrogliare una matassa piuttosto ingarbugliata e stratificata nel tempo (si veda ad esempio l’efficace sintesi della vicenda, suddivisa in un primo periodo di progetto senza scavi e di un secondo periodo di scavi senza progetto).

Soprattutto, nel libro si coglie molto bene l’affievolirsi progressivo nel corso degli ultimi quarant’anni del dibattito pubblico sulla questione, un tempo molto acceso e partecipato, e il chiudersi delle prospettive sempre più entro l’ambito specialistico (archeologi, architetti), che ha prodotto diverse e importanti proposte e iniziative, qui riportate con dovizia di particolari[3], ma politicamente ha partorito meno di un topolino.  

Andare avanti per partes, senza progetto (Pavolini ricorda opportunamente a tale proposito che la commissione paritetica stato-comune nel 2014 consigliava esplicitamente di “evitare i grandi progetti”. Mi viene in mente la “strategia del cacciavite” di un ex ministro della PI, per evitare le “grandi riforme” della scuola) ha pure condotto a importanti risultati: la salvaguardia e il restauro dei monumenti dei Fori, la chiusura al traffico dello stradone mussoliniano, gli scavi Morselli–Tortorici, Santangeli Valenzani-Meneghini, tanto per rammentarne alcuni citati nel libro; continua però a mancare il senso complessivo dell’operazione e, soprattutto, l’elaborazione del rapporto tra area monumentale centrale e il resto della città[4].

Né ha certo giovato la semplificazione di un problema così complesso nella banale polarizzazione del dibattito (vedi i partiti di cui Pavolini parla nel terzo capitolo, divisi tra i “romanisti” che vogliono la conservazione di via dell’Impero e i “progressisti” che ne vogliono la demolizione).

La questione dei Fori, per comprendere la quale il libro di Pavolini è oggi ineludibile, è del resto la cartina di tornasole di una situazione più generale di debolezza della politica e di una tendenza generalizzata a semplificare le questioni più complesse in una logica meramente “binaria”, facilmente “comunicabile”.

Tutto questo testimonia il fatto che Roma ha da tempo smesso di respirare.

Dopo il grande piano regolatore del ’57-62, lo SDO (Piccinato), grandi luci hanno brillato al tempo delle sindacature di Argan, di Petroselli e di Rutelli, ma l’idea di un’integrazione delle funzioni urbane in un disegno organico che valorizzi e integri lo straordinario lascito del passato nella città moderna e che si proietti nel futuro sembra dimenticata e sostituita da una navigazione di piccolo cabotaggio.

È urgente invece tornare presto a pensare in grande, così come Roma merita.

Daniele MANACORDA (**), Roma – Il racconto di due città, Carocci Editore, Roma 2022, pp.274

Se nel libro di Pavolini emerge con il dovuto rilievo la questione del rapporto tra città antica e città moderna riferita a uno specifico problema urbanistico, nel libro di Manacorda tale rapporto assume un’assoluta centralità, articolandosi su più piani, nello spazio e nel tempo, e recuperando allo studio della città quella “dimensione z”, così spesso trascurata ed equivocata, cioè a dire la dimensione della profondità.

Colpisce e si distingue nel libro di Manacorda un approccio dinamico, che si potrebbe definire “fenomenologico”, alla storia più che millenaria dell’Urbe, esempio unico al mondo di continuità abitativa. È la città attraverso la quale si cammina e che si percepisce “con i cinque sensi” quella che qui interessa all’Autore, una città che necessariamente sfugge alla cartografia pur splendida di un Nolli e che si coglie solo uscendo dalle rassicuranti rappresentazioni geometriche per entrare in una visione di contesto, in cui l’alto e il basso (spazialmente e antropologicamente) si intrecciano e si determinano.

Manacorda propone quindi un allargamento del modello stratigrafico allo studio della città intera. Gli “occhiali dell’archeologo” non si fermano dunque a osservare il singolo scavo, ma si alzano a percepire la città come il prodotto di un susseguirsi di alte e basse maree, generate dalla Storia e portatrici (o sottrattrici) di sedimenti più o meno poderosi. In questa prospettiva il libro accompagna chi per la città vuole “passeggiare”, salire e scendere per i suoi “colli”, comprendere, se è possibile, il suo respiro nel tempo.

In questo moto continuo “tridimensionale”, che Manacorda segue con grande abbondanza di particolari e di riferimenti bibliografici, l’Autore individua una cesura decisiva, ovvero quella in cui, tra la fine dell’XI (sacco normanno del 1078) e la prima metà del XII secolo (il pontificato di Pasquale II, 1099-1118, la Renovatio Senatus del 1143) si assiste alla morte definitiva della città antica “dopo sette secoli di agonia”, che viene peraltro suggestivamente colta nella scomparsa dei nomi antichi dei monumenti superstiti (ad esempio il Foro romano che diventa il Campo Vaccino), al passaggio cioè dalla memoria storica alla costruzione del mito (p. 175).  

Personalmente non sono incline a cogliere nel processo storico delle cesure, dei momenti decisivi di svolta (Achsenzeit), quanto delle trasformazioni in continuum. Tuttavia l’individuazione delle “due città” del sottotitolo è sicuramente funzionale a far meglio comprendere il discorso che Manacorda fa sullo sviluppo urbano e materiale della città, in cui archeologia, epigrafia, dati d’archivio, fonti scritte e materiali concorrono alla sua definizione e al suo arricchimento.

Molto mi è piaciuta l’Appendice, con la ricerca etimologica di nomi geografici (Tevere), toponimi (Monte Mario, Velabro, Decenniae) e altro ancora, apparentemente scollegata dal testo, ma che trova invece una sua ragione “nello scavo delle parole”, anch’esse frutto di relazioni e di stratificazioni.

Il libro induce dunque a guardare Roma con un occhio diverso, che non si accontenta di osservare in essa un mosaico di uniche, splendide forme, ma che dà alimento a un pensiero complesso, multidirezionale, nel tempo e nello spazio, l’unico in grado di interpretare davvero la storia di una città come Roma.


(*) Ha al suo attivo oltre 130 titoli tra libri e articoli di argomento storico-archeologico e di politica culturale (Eredità storica e democrazia è del 2017), è stato ispettore archeologo presso le Soprintendenze di Ostia e di Roma, diretta allora da Adriano La Regina, e poi professore di archeologia classica presso l’Università della Tuscia. Si è occupato di ceramica romana, del suo commercio e di architettura e urbanistica. Ha partecipato e diretto importanti scavi in Africa e in Italia. In particolare, al Celio (Gli dei propizi). È tra i massimi esperti di archeologia ostiense (sua la Guida archeologica di Ostia, La vita quotidiana a Ostia e da ultimo Ostia antica) e membro del comitato scientifico del Parco di Ostia Antica.

[1] Massimo BIRINDELLI, Roma Italiana, Roma 1978.

[2] Di “paurosi doveri” della Terza Roma e della necessità di costruire una città moderna, capitale di un nuovo e importante stato europeo, conciliandola con l’immensa eredità della prima e della seconda Roma, parla, ad esempio, Arturo CALZA, nel suo Roma moderna pubblicato a cinquant’anni dal trasferimento a Roma della capitale del Regno d’Italia (1871) e ristampato nel 2020 da Robin Editore.

[3] Numerosi sono stati nel tempo gli interventi e le proposte di insigni urbanisti italiani e stranieri, da Le Corbusier a Leonardo Benevolo, a Italo Insolera, a Raffaele Panella e molti altri ancora.

[4] Vedi la questione della “progettazione dei bordi”, ovvero delle aree di confine tra la zona archeologica e l’attuale città, opportunamente citata nel libro, che è determinante nella strutturazione delle relazioni funzionali e iconiche tra parti significative del tessuto urbano. Walter Tocci ha ricevuto dal sindaco di Roma l’incarico di formulare un progetto complessivo per l’area centrale della città (CARME), in occasione del Giubileo 2025. Pur finanziato da una misura del PNRR, il progetto, davvero pregevole coordinato e portato a termine da Tocci, sta tuttavia incontrando la decisa ostilità del Ministero della Cultura, che si è fatto paladino della conservazione dell’asse Colosseo-Piazza Venezia “così com’è”.

(**) Ha insegnato Metodologie della ricerca archeologica nelle Università di Siena e Roma Tre. Ha diretto dal 1981 il primo progetto di archeologia urbana a Roma Capitale nell’isolato della Crypta Balbi (Crypta Balbi, Archeologia e storia di un paesaggio urbano, 2001). Si è interessato di storia economica del mondo antico e si è occupato di interazione fra sistemi di fonti, approfondendo studi di epigrafia e affrontando tematiche iconografiche di ambito greco e romano. Oltre a numerosi contributi sulla storia dell’archeologia italiana e dei suoi metodi, ha sviluppato lo studio dei paesaggi urbani (Il primo miglio della via Appia a Roma (2010) e Vigna Codini e dintorni (2017) e il tema dei rapporti fra ricerca, tutela e valorizzazione delle aree archeologiche anche in una prospettiva di archeologia pubblica. Ha al suo attivo oltre 300 pubblicazioni, nonché un gran numero di interventi di carattere divulgativo su temi e problemi dell’archeologia contemporanea. (Lezioni di archeologia, 2008, L’Italia agli italiani. Istruzioni e ostruzioni per il patrimonio culturale 2014), nonché un gran numero di interventi di carattere divulgativo su temi e problemi dell’archeologia contemporanea (Il mestiere dell’archeologo, 2020). Attualmente è consigliere di amministrazione del Parco archeologico del Colosseo e della Soprintendenza speciale ABAP di Roma, nonché membro della Commissione scientifica delle Scuderie del Quirinale.

L’unico, autentico Liceo del Made in Italy


di Giuseppe Cappello

Pubblico qui volentieri un riflessione del Professore Giuseppe Cappello, ordinario di storia e filosofia nei licei, sul “nuovo” Liceo del Made in Italy, riflessione che condivido nella sua interezza. Secondo quanto se ne sa finora, sembrerebbe un’operazione di “marketing”, di “make-up” dell’attuale opzione economico-sociale del Liceo delle scienze umane. Dunque etichetta nuova, ma contenuti sostanzialmente identici al passato, salvo qualche accento in più sulle lingue (due) e sulle materie scientifiche. Al di là delle novità presunte, resta la disperante mancanza di una bussola nella politica scolastica, che continua a vivere di spot e a non interrogarsi sulle finalità ultime dell’intero sistema educativo. Questo non avviene a caso, come ho già avuto modo di dire e di scrivere: una scuola che insegni a riflettere, ad analizzare criticamente la realtà che ci circonda, a non cadere preda delle frasi fatte, degli slogan, del pensiero precotto mal si accorda con un’economia di mercato senza freni (“libera”, direbbe qualcuno), cha ha bisogno non di cittadini, ma di clienti. Fermi restando i privilegi delle élites, che continueranno a ben guardarsi dal mandare i propri figli al novello liceo.

“C’è una certa discussione che si è sviluppata sul Liceo del Made in Italy (non uso il corsivo perché ormai il vero italiano è l’inglese) e, sempre più assorbito dall’operare nella scuola piuttosto che dal parlare della scuola, cerco, con queste poche e stanche righe, di esprimere il mio punto di vista.

Il Liceo del Made in Italy, in realtà, in Italia già c’era. Fatto in Italia, e specificità assoluta della creatività e dello spirito italiano e mediterraneo, questo era il liceo classico. Cosa avremmo avuto di meglio da esportare nel mondo (il Made in Italy implica questo brutto concetto dell’esportazione) rispetto agli studi classici? Il latino, il greco e la filosofia. Un unicum, quest’ultimo insegnamento, della scuola superiore al mondo.

Il governo Meloni, invece, ha pensato bene di fare l’ennesima operazione mediatica sulla scuola e aprire un’ulteriore porta alla completa omologazione dei saperi. Lontana in realtà dal sovranismo e, invece, in linea con l’imperante populismo didattico che sta travolgendo la scuola italiana.

Sennonché il problema è che tutto questo avviene anche a sinistra.

Non mi rifarò a Gentile, rispetto a cui la Meloni effettivamente dimostra il suo cosiddetto ‘afascismo’. Anche se più di afascismo si tratta di un misto di ignoranza e demagogia. Non è politicamente corretto, per uno (apolide) di sinistra come il sottoscritto, dire di continuare a pensare – con Gentile – che «scuola è lì dove una mente che insegna e una che apprende si uniscono in una mente che conosce». Gentile non bisogna, se vuoi essere ascoltato nel parlare di scuola, non nominarlo nemmeno a se stessi. Pena l’essere subito bollati di fascismo e di classismo.

Oggi a sinistra imperversa un certo donmilanismo metropolitano che è la cifra pedagogica delle conventicole, così le chiamava Castellitto nel suo Caterina va in città, dentro cui si vede gente e si fanno cose per la scuola. In realtà, più per se stessi, nella lusinga di genitori dimissionari, committenze di case editrici, subiti acquisti di cattedre universitarie fra le «magnifiche e progressive» delle facoltà di una pedagogia senza paideia. Così che, insieme al liceo classico, ci sono, boccheggianti, di fronte alle facoltà delle cosiddette scienze della formazione, le facoltà di filosofia. Per cui ci si consenta di mutuare, fra inglese e latino, il titolo di una vecchia hit degli anni Ottanta: Magistero Killed the Filosofia Star.

Dimenticato e bandito più di quanto non lo siano i vecchi Buggles, Gentile non si può citare, dunque. Ma la conventicola del donmilanismo metropolitano mal tollererebbe anche Gramsci. Lì dove questo giovane sardo con il morbo di Pott e senza nemmeno un PDP scriveva: «Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza». Quali studi, fra le avversità familiari di ordine economico, abbia fatto Gramsci come un mestiere, lo si ricordi. Quelli dell’unico e autentico liceo del Made im Italy, gli studi della licenza ginnasiale e del liceo classico.

Liceo classico ormai in dismissione.

Salvo attendere che il Presidente del Consiglio possa assicurarsi che duri per mandarci, probabilmente e giustamente, la sua prole. Noi vi diciamo cos’è la famiglia tradizionale, ma poi fatela voi! Così pure avverrà con il liceo del Made in Italy. Noi, fra un calice e l’altro dei rampolli dell’altissima borghesia di Vinitaly, vi diciamo dove andare, ma poi andateci voi. Un discorso che in fondo vale anche per i pedagogisti vaticinanti della conventicola del donmilanismo metropolitano. Questa gente, nel pratico, s’intende più di quanto, a parole, non si detesti. Lo si guardi, ancora una volta, nel benemerito Caterina va in città di Castellitto.

E allora, per chiudere sul Liceo del Made in Italy, lo diremo con le parole della Meloni, il «legame profondo che esiste tra la nostra cultura e la nostra identità» è con lo studio del greco, del latino e della filosofia. Uno studio rispetto a cui «occorre persuadere molta gente (a partire dai propri figli e da se stessi) che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza». Il resto, fra Made in Italy e Trade in Italy, è populismo didattico.

Greta teologa


[pubblicato su Insightweb di aprile, english version]

Greta Thunberg, la ex ragazzina – oggi ventenne – svedese, “icona”, come si usa dire oggi, dell’ambientalismo, bamboleggiata dai grandi della terra e, oserei dire, brandita come catalizzatrice di senso di uno sviluppo capitalistico globale che fa del relativismo e della stessa mancanza di senso la sua dimensione sovrastrutturale vincente, a giugno riceverà il dottorato onorario in teologia dall’università di Helsinki.

Non senza contrasti e senza proteste. È stato detto, ad esempio, che “l’unico grande merito di Greta è stato quello di marinare regolarmente la scuola”, che la sua preparazione scientifica lascia alquanto a desiderare.

Mi paiono obiezioni che hanno una loro validità, ma che non colgono nel segno.

Nel caso di Greta non si tratta di certificare le sue competenze culturali generali e specifiche nelle scienze dell’ambiente che, ictu oculi, non paiono particolarmente approfondite. Si tratta piuttosto di rafforzare l’immagine (icona, appunto) di Greta in quanto sintesi “religiosa” di un pensiero sempre più dogmatico e indiscutibile qual è quello apocalittico della ormai prossima fine del mondo a causa del climate change, provocato dalla “cattiveria” di una umanità narrow minded, che sta devastando la Terra Madre.

L’ambientalismo, fattosi religione, ha – coerentemente – i suoi dottori. L’attuale pontefice, del resto, è un ambientalista convinto.

Si sente dire spesso: “La verità è davanti agli occhi di tutti, i cambiamenti climatici sono dovuti alle attività dissennate degli uomini, lo dice la scienza” – facendo così della scienza un catechismo.

E il pensiero “laico”? È ancora possibile ragionare in termini complessi anche su questi argomenti apparentemente così semplici e chiari? Naturalmente la risposta è sì ed è quantomai urgente continuare a mettere sul tavolo altre ipotesi, a vagliare altre risposte, a “dubitare” di ogni verità precostituita. Sembrerebbe banale. Eppure non lo è.

Ogni mezzo di comunicazione di massa – salvo rare eccezioni, tra le quali segnalo il sito clintel.org/Italy –  è invaso ed egemonizzato dal pensiero unico ambientalista, dal Parlamento, dove un povero curato della nuova religione ha portato materialmente dei sassi per “provare” (?) che ci troviamo in un periodo di siccità di cui si conoscono già tutte le ragioni, tutte imputabili agli uomini e alle quale solo la cecità degli stessi impedisce di porre rimedio, ai talk show, al mainstream giornalistico.

Il culto della Natura, intesa sempre come un’entità benigna e immota, violentata dalla tecnica e dalla “scienza” (quella cattiva, naturalmente), dove si officia un ideale di vita ancestrale, fatto di caprette, formaggi fatti in casa, torte della nonna, altra entità sacralizzata, e altre attività congeneri è diffuso soprattutto nella parte – minoritaria – del mondo a più alto reddito, il cosiddetto Global North, che noi spesso confondiamo con il mondo tout court.

 Del resto faticherei a vedere penetrare lo stesso culto di sapore rousseauiano della bontà e della genuinità della vita agro-pastorale, che so, nel Sahel.

Un tempo si sarebbe parlato di “alienazione”, di “falsa coscienza”, che impediscono di comprendere come il vagheggiato ritorno all’autenticità della Natura è un lusso che presuppone un’avvenuta accumulazione primitiva, tale da consentire la “riscoperta della vita semplice del villaggio”, accumulazione primitiva peraltro ottenuta a spese di secoli di sfrutamento del Global South. Mi viene in mente l’Hameau de la Reine, fatto costruire da Maria Antonietta (quella delle brioches), a Versailles.

Il crescente sentimento di insoddisfazione e di ribellione anche violenta che pervade strati sempre più ampi di popolazioni di fronte alla crescita spaventosa delle diseguaglianze e che non trova più risposte nella politica, può tuttavia “infastidire” chi governa.  

Quale miglior rimedio allora se non quello di convogliare quel sentimento verso una nuova religione, che ha già individuato il Maligno e che promette la salvezza in una Natura favoleggiata e provvidenzialmente lontana, capace di ricucire l’atomizzazione delle nostre società fornendo loro senso in un “altrove” in cui, come in tutte le favole, il Bene e il Male si fronteggiano ben distinti l’uno dall’altro?

Non ci indigniamo dunque. Tout se tient. È a buon diritto che Greta è diventata dottore in teologia.

GRETA THUNBERG THEOLOGIAN

Greta Thunberg, the former Swedish girl – now twenty -, “icon”, as they say today, of environmentalism, will receive in June an honorary doctorate in theology from the University of Helsinki. She is dolled up by the greats of the earth and, dare I say, brandished as a catalyst of sense of a global capitalist development that makes relativism and of the same senselessness its winning superstructural dimension.

 There have been protests, of course. It has been said, for example, that “Greta’s only great merit was that she regularly skipped school”, that her scientific preparation raises several doubts.

They seem to me objections that have their validity, but that miss the mark.

In Greta’s case, it is not a question of certifying her general and specific cultural skills in environmental sciences, which, ictu oculi, do not seem particularly in-depth. Rather, it is a question of reinforcing the image (icon, in fact) of Greta as a “religious” synthesis of an increasingly dogmatic and indisputable thought such as the apocalyptic one of the imminent end of the world due to climate change.

The cause can be traced in the “wickedness” of men, who are devastating the Mother Earth. Like any dogmatic thought, it admits no discussions.

Consequently, environmentalism, made religion, has – consistently – its doctors. Pope Francis, moreover, is a convinced environmentalist.

What about “secular” thought? Is it still possible to reason in complex terms even on these apparently so simple and clear topics? (“The truth is before everyone’s eyes”, “science says it”, we often hear it said, thus making science a catechism).

Of course, the answer is yes and it is extremely urgent to continue to put other hypotheses on the table, examine other answers, and “doubt” every pre-established truth. It would seem trivial. Yet it is not.

Every means of mass communication – with rare exceptions, among which I point out the site clintel.org/Italy – is invaded and hegemonized by the single environmentalist thought, even in italian Parliament, where a poor curate of the new religion has physically brought stones to “prove ” (?) that we are in a period of drought for which all the reasons are already known and which only the blindness of men prevents from remedying.

The cult of Nature, always understood as a benign entity, raped by technique and “science” (the bad one, of course), where is proposed an ideal of life made of homemade cheeses, grandmother’s cakes (grandmothers, another sacralized entity, especially if poor and peasant) and so on is widespread above all in the – minority – part of the world with the highest income, the so-called Global North, which we often confuse with the world tout court – after all, I would struggle to see a Rousseauan cult of the goodness and authenticity of agro-pastoral life penetrate, say, in the Sahel.

Once upon a time, there would have been talk of “alienation”, of “false consciousness”, which prevent us from understanding how the longed-for return to the authenticity of Nature is a luxury, which presupposes a primitive accumulation that has taken place, such as to allow the “rediscovery of the simple life of village”. I am reminded of the Hameau de la Reine, built by Marie Antoinette (the one of the brioches), in Versailles.

Alienation and false consciousness that fail to grasp the contradiction between a hyper-technological and computerized existence in which we are immersed every day and the feeling of distrust, which is also instilled in the minds, especially of young people, towards progress and modernity.

Who benefits from all this? Clearly, to the very few who hold the reins of the global economy in their hands, to turbo-capitalism, to anarcho-liberalism, which sees in the green-economy religion a further way to consolidate its planetary hegemony.

The growing feeling of dissatisfaction and even violent rebellion that pervades large sections of the population in the face of the frightening growth of inequalities and which no longer finds answers in politics can however “annoy” those in government.

What better remedy then than to convey that sentiment towards a new cult, which promises salvation in a fabled and providentially distant Nature, capable of mending the atomization of our societies by providing them with meaning in an “elsewhere” in which, as in all fairy tales, Good and Evil face each other quite distinct from each other?

Therefore, we are not indignant. “Tout se tient”. It is with good reason that Greta became a doctor of theology.

Benjamin ABELOW, Come l’Occidente ha provocato la guerra in Ucraina, prefazione di Luciano CANFORA, Fazi, Roma 2022, pp. 81


Il titolo di questo agile libretto è già di per sé “compromettente”. Non si dice infatti “se” l’Occidente abbia provocato la guerra in Ucraina, ma “come” (“how” nel titolo originale) l’abbia fatto.

L’assunto di partenza è dunque dato per certo. Tuttavia non si tratta di un testo dogmatico, ma argomentativo di un aspetto dell’attuale conflitto russo-ucraino che ben poco emerge dalle pagine dei giornali e più in generale dai media della nostra parte di mondo (Europa, Canada, USA, Giappone, Australia), che – è bene ricordarlo – non racchiude affatto la maggior parte della popolazione della terra, ma “solo” la stragrande maggioranza della ricchezza globale.

La guerra ha compiuto un anno. Ne ho parlato qui giusto il 24 febbraio del 2022 (Il conflitto ucraino e il peso della Storia) e poi ho ripreso l’argomento il 13 aprile (Combustibili etici), il 27 agosto (Il paradosso è servito), il 13 settembre (Uno spiraglio di pace), il 28 gennaio 2023 (Un anno di guerra). Non era mia intenzione tornare sul tema, poiché, nel frattempo, nulla è cambiato se non in peggio. Continua a essere officiato il pensiero unico secondo il quale la ragione sta tutta da una parte e il torto tutto dall’altra e che considera filoputiniani tout court tutti quelli che tentano di articolare un ragionamento complesso (guai ai “complessisti”!).

A convincermi a tornare sull’argomento e a suggerire la lettura del libro di Abelow, “molto ben fatto” (Noam Chomsky), “indispensabile per comprendere le vere cause del disastro in Ucraina” (Mearsheimer), è stata la constatazione (un wishful thinking da parte mia?) di un accrescersi nell’opinione pubblica – anche in questo caso assai mal ripresentata nelle istanze politiche e di governo – dei dubbi sulla vulgata che dei fatti di guerra ci viene propinata ogni giorno. Di qui la necessità di esortare il maggior numero di persone possibile a ragionare e a distinguere la propaganda dall’analisi dei fatti.

Su cosa ci fa riflettere in buona sostanza Abelow?

1. – La guerra russo ucraina non è iniziata il 24 febbraio del 2022, ma ha radici vecchie di un trentennio almeno, dalla caduta del presidente etilista Eltsin e dalla successiva ascesa al potere di Vladimir Putin, ben più coriaceo del suo predecessore nella difesa della Federazione russa (raramente viene messo in evidenza il fatto che il governo crudelmente autocratico dello “zar Vladimir” in circa vent’anni ha fatto triplicare il PIL pro-capite della Russia) e assai meno disposto a dare mano libera all’anarco-capitalismo scaturito dalla de-sovietizzazione dell’economia del suo paese.

2. Zelenski è salito al potere con un colpo di stato, ha perseguito e persegue politiche autoritarie (presenza al governo di “quattro figure di spicco che possiamo legittimamente definire neofasciste” secondo Mersheimer, cancellazione dell’identità culturale russa in Ucraina, negazione dell’autogoverno al Donbass, messa fuori legge di partiti avversi. Le recenti misure prese dal governo ucraino nei confronti di giornalisti non allineati non hanno avuto se non tiepidissime reazioni dalle nostre parti).

3. Putin, invadendo l’Ucraina, è caduto in una trappola e ha commesso un terribile errore. Non perché sia uno psicopatico assetato di sangue, ma perché non ha saputo continuare ad agire sul piano politico e diplomatico all’accerchiamento (vedi l’ultimo accordo con Angela Merkel).

Molto opportunamente Abelow richiama la mai dimenticata “dottrina Monroe”, formulata nel 1823 per il continente americano e che poi è stata estesa a tutto l’emisfero occidentale. In tal senso va intesa la politica di allargamento della NATO (creatura statunitense) verso est (ricordate le parole di papa Francesco su una NATO che “ha abbaiato” ai confini della Russia?). La rinascita di una Russia economicamente potente, con immense riserve di preziose materie prime e dotata di un temibilissimo armamento nucleare, rappresentava una minaccia seria all’egemonia statunitense, già fragilizzata in Asia dal colosso cinese.

Abelow insiste sui pericoli di guerra nucleare in cui ci hanno trascinato “la stupidità e la cecità da parte del governo americano e dei leaders europei” e richiama molto opportunamente non tanto l’abusato quanto sciocco parallelo tra Hitler e Putin, quanto la situazione che precedette lo scoppio della Prima Guerra Mondiale e i meccanismi “automatici” che ne furono alla base: danzando sull’orlo dell’abisso si rischia seriamente di precipitare.

Tuttavia l’Autore pare limitare la prospettiva interpretativa entro i confini USA, al rapporto dialettico tra Pentagono e Casa Bianca, alle scelte dissennate di una politica militarmente aggressiva (il dislocamento di missili a medio raggio in Polonia, in Romania e negli stati baltici), perseguita da democratici e repubblicani ben al di là della “containment policy” formulata nel 1946 da George Kennan, che peraltro lo stesso Abelow annovera signifiativamente tra i critici della politica di espansione a est della NATO.

A parere di chi scrive, le provocazioni “occidentali” nei confronti della Federazione russa, la minaccia di inglobare nella NATO prima la Georgia e poi l’Ucraina, che con la Russia condivide circa 2.000 km di confine, non hanno avuto solo lo scopo di mettere fuori gioco Mosca, indebolendone il sistema economico e militare, ma anche e forse soprattutto quello di eliminare definitivamente dalla scena mondiale la prospettiva di un’Europa politicamente unita ed economicamente florida, che poteva contendere agli USA l’egemonia nel campo “occidentale”. Abelow riporta una telefonata della vicesegretaria di stato Victoria Nuland, registrata nel 2014, nel contesto delle manovre golpiste contro il legittimo governo ucraino finanziate dagli USA in cui si dice espclicitamente “fuck EU”.

L’utopia degaulliana di un’Europa dall’Atlantico agli Urali è stata sempre la Bestia Nera degli Stati Uniti. Il “matrimonio” tra materie prime russe a buon mercato e tecnologie europee all’avanguardia non s’aveva da fare. La distruzione del gasdotto nel Baltico ne costituisce un evidente corollario. Né si poteva consentire la nascita di un esercito europeo (Macron), autonomo rispetto alla NATO.

L’occasione ucraina andava colta in tutte le sue valenze e gli USA lo hanno fatto con successo. Si può dire che questa sia la prima guerra che gli Stati Uniti sono riusciti a vincere dal tempo del conflitto coreano. E per di più senza mettere i boots on the ground e senza perdere nessun soldato – a morire sono gli ucraini.

Quello che stupisce non è tanto il balbettio di Bruxelles, ormai sempre più una fictio iuris autoreferenziale, che trova nella pochezza di una poveretta come Ursula von der Leyen la sua plastica incarnazione, bensì l’assenza politica e strategica di due comunque grandi potenze come la Francia (seppure governata da un Macron ridotto a una lame duck) e la Germania.

Quest’ultima in particolare, tagliata fuori dalle sue “fisiologiche” relazioni con la Russia in termini di commercio di tecnologie e materie prime, vede messo a repentaglio il suo export di qualità (prima della guerra era la terza potenza mondiale per surplus commerciale). Il costo dell’energia, in assenza del gas e del petrolio russo, non rimpiazzabile con il GNL americano, si accrescerà in misura tale da mettere a repentaglio l’intero attuale sistema produttivo tedesco. Si contano già le prime fabbriche tedesche che delocalizzano negli USA a causa degli insopportabili costi energetici.

Se la guerra continua – e gli Stati Uniti hanno evidentemente tutto l’interesse a farla continuare – noi europei ne usciremo con le ossa rotte e per di più felici e contenti (“cornuti e mazziati”), indossando magari uno dei tailleurini giallo blu di Ursula.

La crisi ucraina era “prevedibile, prevista ed evitabile” (Sawka). È tempo dunque di riconsiderare la nostra politica di europei, i cui interessi, se pure non collidono con quelli americani, non sono certo gli stessi. Tornare a indagare le cause del conflitto, “senza rissa mediatica e sbuffi di intolleranza” (Canfora), per formulare proposte di soluzione accettabili da tutte le parti in causa dovrebbe essere un compito urgente, soprattutto dell’Europa che conta (Germania e Francia).

[english version, Insightweb, march 2023]:

The Russian-Ukrainian war did not begin on February 24, 2022, but has roots dating back at least thirty years.

The title of the agile booklet  by  Benjamin Abelow is already “compromising” in itself (1) . In fact, it is not said “if” the West provoked the war in Ukraine, but “how” did it.

The starting assumption is therefore taken for granted. However, it is not a dogmatic text, but an argumentative one, regarding an aspect of the current Russian-Ukrainian conflict that emerges very little from the pages of newspapers and more generally from the media of our part of the world (Europe, Canada, USA, Japan, Australia), which – it should be remembered – does not include the majority of the earth’s population at all, but “only” the vast majority of global wealth.

The war has turned a year old. What persuaded me to return to the subject and to suggest reading Abelow’s book, “very well done” (Noam Chomsky), “indispensable for understanding the real causes of the disaster in Ukraine” (Mearsheimer), was the observation (a wishful thinking for my part?) of an increase in public opinion – also in this case very badly represented in the political and government instances – of doubts about the Vulgate that war events are fed to us every day.

What Abelow essentially makes us think about?

1. – The Russian-Ukrainian war did not begin on February 24, 2022, but has roots dating back at least thirty years, from the fall of the alcoholic president Yeltsin and the subsequent rise to power of Vladimir Putin, much tougher than his predecessor in defending the Russian Federation (the fact that the cruelly autocratic government of “Tsar Vladimir” tripled Russia’s per capita GDP in about twenty years is rarely highlighted) and much less willing to give a free hand to the anarcho-capitalism that arose by the de-Sovietization of his country’s economy.

2. Zelensky came to power in a coup d’état, pursued and continues to pursue authoritarian policies (presence in the government of “four prominent figures that we can legitimately define as neo-fascists” according to Mearsheimer, erasure of Russian cultural identity in Ukraine, denial of self-government in Donbass, outlawing of adverse parties. The recent measures taken by the Ukrainian government against non-aligned journalists have had only very tepid reactions in our parts).

3. Putin, in invading Ukraine, fell into a trap and made a terrible mistake. Not because he is a bloodthirsty psychopath, but because he has not been able to continue to act politically and diplomatically in the encirclement, (see the latest agreement with Angela Merkel).

Very appropriately Abelow recalls the never forgotten “Monroe Doctrine”, formulated in 1823 for the American continent and which was then extended to the entire western hemisphere. In this sense, NATO’s (US creature) enlargement policy towards the east should be understood (remember the words of Pope Francis about a NATO that “barked” at the borders of Russia?). The rebirth of an economically powerful Russia, with immense reserves of precious raw materials and equipped with a fearsome nuclear weapon, represented a serious threat to US hegemony, already weakened in Asia by the Chinese giant.

Abelow insists on the dangers of nuclear war into which “the stupidity and blindness on the part of the American government and the European leaders” have dragged us and very appropriately recalls not so much the abused as silly parallel between Hitler and Putin, as the situation that preceded the outbreak of the First World War and the “automatic” mechanisms that were at the basis of it: dancing on the edge of the abyss you seriously risk falling.

However, the author seems to limit the interpretative perspective within the US borders, to the dialectical relationship between the Pentagon and the White House, to the senseless choices of a militarily aggressive policy (the deployment of medium-range missiles in Poland, Romania and the Baltic states), pursued by Democrats and Republicans well beyond the “containment policy” formulated in 1946 by George Kennan, who, moreover, Abelow himself significantly counts among the critics of NATO’s eastward expansion policy.

The “Western” provocations against the Russian Federation, the threat of incorporating into NATO first Georgia and then Ukraine, which shares an approximately 2,000 km border with Russia, have not only had the aim of putting Moscow out of the game, weakening its economic and military system, but also and perhaps above all that of definitively eliminating from the world scene the prospect of a politically united and economically prosperous Europe, which could compete with the USA for hegemony in the “Western” field. “Fuck EU”, said US diplomat Victoria Nuland in a leaked video (The Guardian, 7th February 2014.

The Degaullian utopia of a Europe from the Atlantic to the Urals has always been the Black Beast of the United States. The “marriage” between cheap Russian raw materials and cutting-edge European technologies is not to be done. We can say that this is the first war that the United States has managed to win since the time of the Korean conflict. What’s more, without putting “boots on the ground” and without losing any soldiers – the Ukrainians are dying.

What is surprising is not so much the stammering of Brussels, by now increasingly a self-referential fictio iuris, which finds its plastic incarnation in the smallness of Ursula von der Leyen, but the political and strategic absence of two great powers such as France and the Germany.

The latter in particular, cut off from its “physiological” relations with Russia in terms of trade in technologies and raw materials, sees its quality exports waning (before the war it was the third world power for trade surplus). The cost of energy, in the absence of Russian gas and oil, which cannot be replaced with American LNG, will increase to such an extent as to jeopardize the entire current German production system. There are already the first German factories relocating to the USA due to unbearable energy costs.

If the war continues – and the United States obviously has every interest in making it continue – we Europeans will come out with broken bones.

The Ukrainian crisis was “foreseeable, expected and avoidable” (Sawka). It is therefore time to reconsider our policy as Europeans, whose interests, even if they do not collide with those of the United States, are certainly not the same. Going back to investigating the causes of the conflict, “without media brawls and puffs of intolerance” (Canfora), to formulate proposals acceptable to all parties involved should be an urgent task, especially in Europe that matters (Germany and France).

*How the West brought war to Ukraine. Understanding how U.S. and NATO policies led to crisis war and the risk of nuclear catastrophe, 2022, pp. 81

Un anno di guerra


L’ultima riflessione sulla guerra tra Russia e Ucraina risale qui al 13 settembre scorso.

Il 5 novembre si è svolta a Roma la marcia per la pace, partecipata da decine di migliaia di persone. Un segnale che le opinioni pubbliche europee mostrano oggi segni sempre più evidenti di inquietudine, mentre mi pare si stiano affiochendo gli squilli di tromba della propaganda guerresca, suonata a gran voce dai governi e da una stampa mainstream che, ancora una volta, misurano la loro lontananza dalle reali preoccupazioni delle opinioni pubbliche dei rispettivi paesi.

La storia non si ripete mai, lo sappiamo, né è mai stata “magistra vitae”, ma se si leggono testi e documenti relativi al periodo antecedente lo scoppio della Grande Guerra, nel 1914, non si possono non ravvisare similitudini. Primo fra tutti l’apparente ineluttabilità degli eventi.

 Anche allora, il meccanismo perverso degli schieramenti e delle alleanze impedì che le volontà di pace, pur maggioritarie in Europa, si affermassero a impedire “l’inutile strage”, come la definì Benedetto XV.

Prigionieri tutti degli schieramenti precostituiti, bastò allora che si muovesse una sola rotellina dell’ingranaggio (l’assassinio di Francesco Ferdinando a Sarajevo e l’ultimatum successivo dell’Austria-Ungheria alla Serbia) per mettere in moto il tragico “macinino”, come direbbe il “fisolofo” belliano che inghiottì milioni di uomini.

Oggi, in un mondo globalizzato, con un’arma atomica appannaggio di troppi paesi “indipendenti”, senza un sistema di pesi e contrappesi a scala planetaria, con una ONU inefficace e inetta e uno stato-egemone (gli USA) non più in grado di guidare un mondo unipolare, i pericoli di allora si sono moltiplicati e intensificati.

Occorre dunque avere il coraggio di inserire nel meccanismo dei granelli di sabbia, per incepparlo prima che sia troppo tardi. Da dove possono essere ricavati questi granelli? Da molte “cave”. Innanzi tutto bisogna:

1. – abbandonare la tesi moral-virtuistica che vede il Bene tutto da una parte e il Male tutto dall’altra; lasciamola alla propaganda, ma non facciamone un modello di analisi degli eventi;

2. – ricostruire i fatti attuali ripercorrendo le tappe della loro formazione e le loro radici storiche;

3. – cercare soluzioni che non contemplino l’annientamento di uno dei contendenti e che prefigurino un onesto compromesso possibile, anche provvisorio;

1. – La Russia di Putin: incarnazione del Male. Nessuna ragione nei suoi comportamenti. Putin è solo uno psicopatico e malato grave. Vive chiuso nella rocca del Cremlino circondato dai suoi scherani sanguinari. Forse è addirittura morto e a noi vengono mostrate delle sue immagini “truccate”. Tutto il popolo russo soffre sotto il tallone della dittatura e vorrebbe scappare in massa verso la Finlandia e la Bielorussia. I soldati russi muoiono a decine di migliaia. Sono branchi di selvaggi violentatori e saccheggiatori.

Zelenski è il principe del Bene. Non ha commesso errori. Governa democraticamente il suo paese ed è senza colpe per la brutale invasione russa. I soldati ucraini non muoiono, i civili sì. Basterà fornire armi moderne ai resistenti e l’Ucraina riconquisterà tutte le terre perdute compresa la Crimea, sconfiggendo (uccidendolo, se non è già morto) definitivamente Putin e facendo piombare la Russia in un benefico caos rigeneratore.

 Al di là del paradosso, questa è l’immagine che i media ci trasmettono ogni giorno. Basterebbe fermarsi un momento a ragionare e ci si accorgerebbe subito che una visione binaria di tal fatta non serve a capire, ma a “propagandare” una visione delle cose unilaterale. Ancora una volta, basterebbe rileggere, ad esempio, i testi di propaganda delle potenze dell’Intesa che, negli anni 1914 – 1918 dipingevano i tedeschi non già come nemici, ma come mostri stupratori e cannibali.

2. – Riprendo quello che dissi il 24 febbraio, allo scoppio della guerra: l’identità nazionale ucraina è molto più complessa di quanto la dipingano le posizioni illuministiche di chi considera solo l’astratta violazione dei confini così come appaiono oggi una insopportabile ferita arrecata al sistema dei Diritti Universali e al fantasmatico Diritto Internazionale (peraltro valido a fasi alterne: in Ucraina sì, in Serbia no, per il Donbass sì, per il Kosovo no – e si potrebbe continuare).

In questi ultimi tempi si è inoltre sempre più fatta sentire l’azione di due paesi dell’UE “anomali”, la Polonia e l’Ungheria. Soprattutto la prima pare essere diventata la nazione-guida della politica estera dell’Unione: nazionalista e bellicista. Le ragioni stanno nella storia. Si parla con sempre maggiore insistenza di una forza polacca pronta a intervenire in territorio ucraino non già per difendere Zelenski e il suo governo, ma per riconquistare quello che è stato polacco fino al 1945 e mai russo, ovvero la regione di Lwow/Leopoli. Dal canto suo, l’Ungheria ha mandato un chiaro segnale con lo “svecchiamento” degli alti gradi dell’esercito filo-NATO, in vista di una possibile riconquista, anche in questo caso qualora il governo di Zelenski subisse un tracollo, della Transcarpazia, ungherese per secoli e perduta anch’essa nel 1945.

Della Crimea e del Donbass non occorre dire che da sempre sono state russofone e filorusse.

Analizzare il dato storico significa giustificare l’invasione putiniana? Niente affatto. Solo, se non si vuole attribuire alla psichiatria anche una capacità di comprensione dei fenomeni storici, è necessario comprendere le ragioni di chi ha – manifestamente – torto.

Esistono inoltre prospettive globali che vanno al di là del conflitto attuale e di cui bisogna tener conto. Dall’inizio del millennio – almeno – gli USA hanno visto con profonda inquietudine la prospettiva di una saldatura, per quanto limitata, tra Russia e UE in ambito economico e commerciale. Diffidenti da sempre di un’Europa – già economicamente forte – politicamente unita, avversari acerrimi dei gasdotti Nordstream 1 e 2 (vedi i warnings lanciati periodicamente alla Germania di Angela Merkel), hanno sempre temuto – a buon diritto – l’integrazione tra un immenso paese detentore di materie prime preziosissime come la Russia con un continente europeo tecnologicamente avanzatissimo. La guerra in Ucraina ha offerto una ghiotta opportunità di inserire un cuneo definitivo tra Russia e Europa (il sabotaggio del gasdotto baltico mi pare abbia un nome e un cognome), facendone pagare il conto ad altri (vedi la crisi della bilancia commerciale tedesca) e senza mettere, come al solito, “the boots on the ground” e patire sconfitte (vedi l’Afghanistan). Senza contare che, in assenza del gas russo, dovremmo di necessità comprare quello americano da fracking, molto più caro.

3. – Soluzioni? Nessuno è in grado di fare uscire il coniglio dal cappello. Certo è che non avere prospettive di uscita è davvero drammatico. E parlo del fronte “occidentale” (by the way, la Russia di oggi è un paese ultracapitalista, anche se nella propaganda si gioca sulla comunicazione subliminale che Putin sia come Stalin e la Russia come l’URSS). Cosa si vuole in realtà?

A) – La sconfitta di Putin e il ritorno alla situazione quo ante? In questo caso gli attuali rifornimenti d’armi all’Ucraina non bastano. Ha ragione Zelenski. Occorrono aerei moderni, moderne artiglierie capaci di raggiungere il Cremlino, moderni sistemi antiaerei. Se è necessario l’impiego di reparti di élite dei vari eserciti della NATO. Insomma è necessario fornire all’Ucraina tutta la tecnologia occidentale più avanzata. Una volta sconfitto Putin sul terreno, la sua scomparsa politica ne sarà la conseguenza ineluttabile. L’arma atomica? Uno spauracchio senza vera sostanza.

B) – L’apertura di un tavolo di trattativa? Non serve che ci sia anche Putin , ma tutti gli attori che sostengono il governo ucraino. A Yalta e a Teheran non c’erano i nazisti tedeschi. Gli alleati dell’Ucraina dovrebbero riunirsi non per celebrare la solita messa cantata della indefettibile solidarietà alla causa ucraina, con relativo stanziamento di ulteriori pacchetti di armi (che, nelle paradossali parole di Biden, non vanno considerate dirette contro la Russia!) ma per elaborare un ventaglio di proposte ragionevoli e accettabili da tutte le parti coinvolte, da sottoporre pubblicamente e apertamente alla Russia come punto di partenza di una trattativa lunga e difficile, nel corso della quale raggiungere quantomeno un cessate il fuoco.

Occorre urgentemente scegliere.