STORIA DI ORDINARIO DEGRADO URBANO


Ho avuto modo di parlare già in precedenza dell’incultura che governa da anni Roma e la politica del territorio (vedi “Tristitia Urbis: una riflessione a partire da un nonnulla”, febbraio 2014, sez. costume). Lo scempio estetico (oltre che etico) della Città è dinnanzi agli occhi di tutti e gli esempi si moltiplicano, giorno dopo giorno, contribuendo a generare una sorta di anestesia per il Bello, alla lunga foriera di una malattia grave dello spirito, che si chiama volgarità e che spesso è prodromo di illegalità e criminalità. Prendo un caso che mi è topograficamente contiguo: l’area verde ricavata al di sopra del parcheggio coperto collegato alla stazione della Metro B1 di Sant’Agnese e Piazza Annibaliano. Al termine dei lavori e con l’apertura della nuova metropolitana si sperava prossima anche l’apertura del parcheggio quadripiano. Sono trascorsi ormai oltre tre anni dal giugno 2012 e nulla si è mosso in questa direzione, mentre sempre più evidenti sono i segni dell’abbandono e della sporcizia che si va accumulando in questa imponente sostruttura. Il peggio però e quello che è accaduto in superficie. Qui si è scelto saggiamente di non ricavare un ulteriore spazio sosta all’aperto, ma di attrezzare un’area verde, con panchine, lampioncini e viali di conglomerato chiaro (foto 1)

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Come si può osservare, il disegno dell’area è decisamente mediocre, come insensata la scelta dei materiali di rivestimento: il progettista non ha infatti tenuto in alcun conto il contesto “alto” in cui andava a collocare l’opera, dominato dai resti imponenti della basilica circense detta di Annibaliano e dallo stupendo Mausoleo di Costanza, un piccolo, raro gioiello di architettura bizantina, entrambi rivestiti di una splendida cortina in laterizio. Con non poca e mal riposta presunzione, si è così costruita una sorta di grande piazza semi-ipogea, dominata da un campaniletto in cemento e da una specie di “trampolino inclinato” totalmente fuori scala, appoggiato su grandi plinti rotondi rivestiti in acciaio. Insomma, un’architettura urbana che ha stabilito con il proprio intorno il medesimo rapporto di un disco volante appena atterrato. L’area verde poi, con le sue aiole d’ordinanza, ospita muretti e volumi di servizio della Metro, foderati di travertino o con un rivestimento di color antracite, tutti in distonia con gli antichi monumenti che la sovrastano. Ma a questa insensibilità compositiva siamo ahinoi abituati da tempo. Il grave è che, per dirla con Longanesi, all’inaugurazione non è seguita alcuna manutenzione. Lasciata senza sorveglianza, pulita in maniera irregolare e approssimativa, con un impianto di irrigazione delle zone prative (ora solo macchie giallastre) fuori uso da tempo e lasciata in balia di disinvolti padroni di cani che vi circolano liberamente senza guinzaglio e senza museruola, nonostante i minacciosi cartelli di divieto (peraltro quasi tutti divelti), vittima di writers selvaggi, oggi appare totalmente e, credo, irrimediabilmente degradata (foto 2).

WIN_20150704_163533 Ecco dunque infilata un’altra perla nera nella collana degli orrori urbani che deturpa il volto di quella che un tempo era la più bella città meta del “Grand Tour”.

Questione di modelli: una risposta a Irene


Rispondo qui all’intervento di Irene, lieto di risentirla dopo tanto tempo.
Si tratta di una riflessione, la sua, come sempre lucida e utile a cogliere il nòcciolo del problema della nostra attuale architettura costituzionale e istituzionale: la mancanza di un preciso modello di riferimento. Tra i peccati più gravi della cosiddetta “Buona Scuola” renziana c’è proprio quello dell’assenza di una fisionomia.
Nell’attuare il dettato costituzionale, come si disse allora, la riforma regionale della metà degli anni ’70 aprì alla istituzione di parlamenti locali, senza tuttavia che venissero intaccati nella sostanza i poteri e le dimensioni dello stato centrale. Così, centro e periferie non solo non si integrarono in un disegno nuovo e più efficace, efficiente e, soprattutto, più economico, ma finirono per intrecciarsi e generare solo costose superfetazioni.
Come nel caso dei Decreti Delegati sulla scuola, pressoché coevi alla creazione delle regioni a statuto ordinario, si trattò di una risposta alle spinte dei “movimenti” della fine degli anni ’60, ma in un senso tutto politico-politicante: allo slogan “nulla al di fuori della politica” corrispose una capillare penetrazione ed estensione del modello parlamentaristico-partitico fino a livelli decisionali di base: chi ha frequentato i primi consigli di istituto sa che, in miniatura, vi operavano le medesime forze politiche rappresentate al centro e con le stesse dinamiche di alleanze, scontri e compromessi.
Tutto ciò, lungi dall’avvicinare i momenti decisionali al cittadino, ha fatto nascere una nuova professione: quella del politico, sostanzialmente autoreferente, con a disposizione un cursus honorum all’interno di una struttura che, con qualche gusto per il paradosso, si potrebbe definire “sovietica”, cioè a dire dominata dai consigli: per le scuole i consigli di istituto, di dipartimento, provinciale, nazionale e, più in generale, i consigli di circoscrizione, comunali, provinciali, regionali, oltre ai due gradi supremi del Parlamento nazionale ed europeo.
Da qui è nato un primo grande equivoco: parlamentarizzare le decisioni non significa renderle più democratiche, ma solo più complesse e aperte a pratiche moralmente eccepibili, quali la formazione di partiti intesi come meri comitati di gestione del potere.
Si è trattato di un processo lungo, non privo di contraddizioni e di rare luci, oltre che di molte ombre e che ha conosciuto un altro snodo importante negli anni ’90, con le leggi cosiddette Bassanini (autonomia scolastica e universitaria, società di gestione dei servizi a capitale misto a livello territoriale, meccanismi di autocertificazione, ecc.).
Come nella fase della metà degli anni ’70, anche allora le intenzioni furono buone, forse nella speranza che, pur iniziando dal cappello, si potesse poi cambiare l’intero vestito: sveltimento dei processi decisionali, più poteri ai portatori di interesse (stakeholders), ampliamento della libertà di azione degli organismi di base, rendendoli nello stesso tempo valutabili e responsabili dei risultati. Pie illusioni.
Dopo oltre vent’anni è possibile tracciare un bilancio di questa spinta “modernizzante”, già allora non più politica in senso ideologico (il cosiddetto “pensiero unico” si stava affermando proprio in quel torno di tempo). Così facendo, non si può non parlare di fallimento, soprattutto a causa del perdurante equivoco e della non-scelta tra modelli statuali diversi. L’autonomia delle comunità territoriali afferisce ad un modello di stato centrale leggero, di tradizione sostanzialmente anglosassone, soprattutto statunitense, affatto estraneo alla nostra tradizione, che è sempre rimasta “napoleonica” e centralistica, di chiara derivazione transalpina.
In questi anni però il centro non si è affatto indebolito e, anzi, ha da ultimo riacquistato peso, mentre le comunità territoriali autonome non hanno cessato di accrescere a dismisura spese e poteri, destinati ad alimentare le voraci esigenze dei partiti, senza recare alcun vantaggio ai comuni cittadini. Richiamo qui, ancora una volta, l’ottima indagine condotta tempo fa dall’istituto “Bruno Leoni” sui costi della politica, intesa come apparato di governo delle decisioni: se razionalizzata, tale spesa potrebbe fornire un risparmio di 20 miliardi di Euro all’anno, pari a oltre due finanziarie in tempo di crisi(1).
L’esempio più lampante di questa perdurante, mancata scelta tra modelli è quello dell’autonomia scolastica, la grande “incompiuta”, mai attuata sul serio che, se implementata come doveva, avrebbe condotto ad una vera e propria “rivoluzione”.
Come è diffuso costume italiano, ha prevalso una logica non già innovativa, ma additiva, secondo la quale è bene “non buttar via nulla”, per cui il vecchio, pur indebolito dai nuovi provvedimenti, ha continuato a coesistere con un nuovo appena abbozzato. Il MIUR è restato com’era, si sono aggiunti gli Uffici Scolastici Regionali, inutili doppioni delle competenze regionali, ormai sancite dalla Costituzione, mentre le scuole hanno continuato ad operare in un magma confuso di livelli di competenze, di direttive non coordinate e spesso contraddittorie, per di più aggravate da una crisi economica che ha condotto negli ultimi cinque anni ad una riduzione di oltre 10 miliardi di risorse, unico “caso” di rigorosa quanto improvvida “spending review” (ricordo che, nonostante i roboanti annunci del Presidente Matteo, la spesa per istruzione in Italia nel 2015 resta attorno al 4,5% del PIL, ben al di sotto della media europea, attestata attorno al 6%).
E’ dunque urgente scegliere una strada, un disegno prospettico definito e, nello stesso tempo, ridurre il livello di parlamentarizzazione delle istituzioni, diminuendo drasticamente sia il numero dei parlamentini territoriali, sia quello delle “persone addette”, dei politici di professione, giunti a cifre davvero insostenibili.
La lentezza delle procedure di cui spesso ci si lamenta, addossandone l’intera responsabilità alla “burocrazia”, va in realtà attribuita in primo luogo allo smisurato potere di interdizione esercitato dalla “Partiti spa”, la quale, proprio abusando di asseriti “stati di emergenza”, fa saltare ogni controllo di merito e di metodo, imponendo un po’ dappertutto le proprie clientele.
Dobbiamo al più presto restituire valore alle competenze, alla selezione per merito e, così facendo, riconquistare quel “senso dello Stato” da troppi anni smarrito nella giungla degli interessi corporativi e falsamente democratici.
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(1) vedi in questo blog “Cocomeri e fichi d’India” dell’ottobre 2013

24 maggio 1915


bandiera mezz'asta

Domani fanno 100 anni da quando “il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il ventiquattro maggio”. Allora anche l’Italia entrò nel grande tritacarne della guerra, destinata, con la sua ancor più sanguinosa e rovinosa appendice di circa vent’anni dopo, a dissolvere per sempre la luminosa civiltà europea.
Ha ragione Arno Kompatscher, presidente della provincia autonoma di Bozen/Bolzano: c’è poco da festeggiare, al di qua e al di là del Brennero.
Molto più civile e significativa mi è parsa l’iniziativa presa a Innsbruck, sotto il titolo “Brücken für den Frieden” (“Ponti per la Pace”), dove si è parlato di storia, della storia del Tirolo in quanto regione europea, ora ripartita tra il Tirolo austriaco, il sud Tirolo italiano e il Trentino (il cosiddetto “Welschtirol”) e della necessità di celebrare, semmai, la fine e non l’inizio della guerra, verso orizzonti di pacifica convivenza all’interno del nostro Vecchio Continente.

Voluta da una minoranza di italiani che, con l’appoggio della Corona e dei circoli militari e industriali, misero in piedi un vero e proprio colpo di stato (ribattezzato dal genio dannunziano il “radioso Maggio”), la Grande Guerra è stata “un’inutile strage”: ci costò quasi 1.300.000 morti, senza contare le circa 600.000 vittime della pandemia influenzale detta “spagnola”.
Inutile, perché l’Austria – Ungheria era disposta a restituirci quasi tutti i territori italofoni dell’Impero in cambio della nostra neutralità (vedi le proposte qui riportate nel giugno del 2014, “28 giugno 1914: imperi da ricostruire”).
Che Italia, che mondo sarebbero stati, se l’atroce meccanismo automatico delle mobilitazioni a catena non avesse trascinato tutti verso l’illusione di un conflitto breve (si disse che a Natale del 1914 tutti sarebbero tornati a casa).

Per ricordare il 24 Maggio, pubblico qui una favola sulla Storia che non fu. L’ha scritta Steve Condrey.

Obituary: Emperor Franz Ferdinand I (December 23, 1863-July 30, 1947)
ARSTETTEN CASTLE, AUSTRO-HUNGARIAN EMPIRE, August 2, 1947 (UPI) – His Imperial Majesty Franz Ferdinand I, Emperor of Austria and King of Hungary, lies in state as dignitaries from around the world, including Vice-President Earl Warren of the United States, pay their respects. The Emperor passed away in his sleep three days ago at the age of 83.
Franz Ferdinand I was born in the town of Graz in what was the Austrian Empire in 1863. He was an unconventional monarch. His marriage in 1900 to Countess Sophie Chotek raised eyes among the royal families of Europe, as she was not considered an eligible marriage partner for an heir to the House of Habsburg. Consequently, their children were left out of the line of succession to the throne. His consort was never fully accepted by most of the royal houses of Europe, a possible factor in his efforts to transition the Empire to a constitutional monarchy on the lines of Britain.
At the time his name came to global prominence in 1914, Franz Ferdinand was not expected to be more than a place-holder in the polyglot Austro-Hungarian Empire, at the time torn by ethnic strife. The assassination attempt against then Archduke Franz Ferdinand and his wife during a visit to the city of Sarajevo was averted when a grenade thrown at their car failed to detonate. Police quickly rounded up several suspects belonging to the Black Hand, a separatist group whose aims included a pan-Slavic state separate from the Empire. One of the would-be assassins, Gavrilo Princip, was defiant all the way to his death in 1918 from tuberculosis. Nonetheless, Franz Ferdinand interceded with his predecessor, Emperor Franz Joseph I, on behalf of the Kingdom of Serbia. Serbia was spared invasion provided the kingdom extradite all known members of the Black Hand to the Empire, a request that was carried through within six months. Given the network of alliances that existed amongst the Great Powers of Europe at the time, one can only wonder of the magnitude of the conflict that would have ensued had Serbia not fully complied with the Empire’s demands.
Upon succeeding to the throne in 1916, Franz Ferdinand initiated extensive reforms intended to ease political and ethnic strife in the Empire. The Diet was reformed on the model of the United States Congress in 1918 after the Emperor retained former US President William Howard Taft as an advisor. All ethnic groups meeting certain population requirements were allowed proportional representation in the Diet. Likewise, civil service reforms reduced corruption and increased government efficiency by ensuring that government workers are hired on the basis of professional competence rather than family connections. Most importantly, Article 19 of the Empire’s constitution was amended to require the use of German, Hungarian, and Italian as official languages while maintaining the rights of the Empire’s various ethnic groups to preserve their own languages and cultures. Implementation of this reform spurred a massive investment in primary and secondary education, which has paid off to this day. 90 percent of the Empire’s population is fully literate in at least two languages, and the Empire is behind only Germany, France, and Britain in the number of working scientists and engineers graduating from its universities. Once a region destined to fall behind the modern age, the Austro-Hungarian Empire is now the third-largest economy in Europe and a major player in world affairs.
Codifying a long-standing Imperial policy of unofficial tolerance for its Jewish population prompted mainly out of a desire to prevent further agitation of endemic ethnic strife, the Emperor in 1923 declared Austria-Hungary a ‘friend to all peoples, of all faiths, who live and act lawfully within the boundaries of the Empire’. Backed up by a newly-formed national police force—among the most modern and well-trained in Europe—the Empire made good on his bold words, and Austria-Hungary houses the second-largest Jewish population in the world. Vienna is often referred to as ‘new Jerusalem’; a massive new synagogue completed in 1940 is the world’s largest.
Proof of the Empire’s dedication to religious tolerance was seen in 1928 when a group of anti-Semitic agitators led by a failed artist named Adolf Hitler was arrested after plotting a series of synagogue bombings. Hitler and his co-consiprators were eventually executed for attempted murder and ‘acts detrimental to the internal security of the Empire’. Such groups still arise from time to time in the Empire but their actions are not tolerated, and gradually the various peoples of Austria-Hungary are learning that more is to be gained from cooperation than from continued conflict.
In 1937 after the Panay Incident, in which Japanese warplanes mistakenly attacked an American naval vessel in Chinese waters, Franz Ferdinand offered his services as a mediator between the two Pacific powers. The resulting Treaty of Budapest led to a settling of interests in the Pacific fixing the American and Japanese spheres of influence in China and elsewhere. The Empire has remained on very friendly terms with both the United States and Japan ever since.
While ensuring peace between the United States and Japan, the militarist regime in Japan all but assured war in the region was inevitable, and Japan attacked the Russian Empire in 1940. Most of eastern Siberia was lost to the Japanese before Tsar Alexei I was deposed and replaced by a Communist regime under Josef Stalin in 1943. The Tsar and his family remain in exile in Vienna, the Tsar physically too ill to participate in today’s funeral services but still a vigorous anti-Communist.
No friend to Communism, the Emperor was very tough on Red activities within his own borders. Former army officer and Austro-Hungarian Communist Party chief Josip Broz was executed for treason in 1943, and most of the party’s senior leadership imprisoned, after Broz’s connections to the Stalin regime were revealed. However, Franz Ferdinand also mediated in the civil war in Spain, though Generalissimo Franco proved to be a very difficult case. A power-sharing agreement between the Loyalists and Nationalists was eventually worked out in 1937, but the situation in Spain remains very shaky and is likely to boil over with Stalin’s so-called ‘Soviet Union’ now willing to foment the conflict.
One of the hardest-working monarchs in Europe, Franz Ferdinand also enjoyed his recreation. An avid tennis player, he participated in friendly matches with most of the prominent tennis stars in Europe and the United States. During each of his five state visits to the United States, the Emperor made sure to include at least one of the national parks on his itinerary. He was said to be particularly fond of Yellowstone and Acadia. What was thought to be an assassination attempt against the Emperor in 1938 at Acadia National Park in Maine turned out to be the act of a lone, mentally unstable poacher that nonetheless cost the life of a park ranger who died protecting Franz Ferdinand. The ranger, Karl Jacobson, was posthumously granted honors by the Emperor and his family awarded a pension in gratitude.
Franz Ferdinand is survived by his children, Princess Sophie von Hohenberg, Duke Maximilian von Hohenberg, and Prince Ernst von Hohenberg. He was preceded in death by his consort, Duchess Sophie von Hohenberg, in 1944 and a stillborn son in 1908. Because of the morganatic nature of Franz Ferdinand’s marriage to Sophie, none of the children are in line for the throne. The Emperor’s nephew, Archduke Otto von Habsburg, will ascend the throne in their place as Emperor Otto I in a ceremony to take place after the 30-day official mourning period declared by the Diet.

Alle radici della Buona Scuola


Continua il cammino non facile del DDL detto “La Buona Scuola” alla Camera dei Deputati, in attesa del passaggio critico finale in Senato. Propongo qui una terza riflessione in itinere, che segue quanto già detto in precedenza (a settembre del ‘14 “La Buona Scuola del Maestro Matteo, a marzo del ‘15 “Il nuovo Disegno di Legge sulla scuola”, pubblicato anche su http://www.eguaglianzaeliberta.it/ con il titolo “La Buona Scuola ha il cappello d’asino”) e che si concluderà quando avremo a disposizione la stesura definitiva della Legge e delle Deleghe.
Nonostante il passaggio in commissione abbia “aggiustato” alcune parti del testo originario proposto dal governo, con emendamenti avanzati dalla stessa relatrice Maria Coscia (PD), le lacune, i dubbi interpretativi e, soprattutto, l’incertezza del disegno complessivo restano evidenti. Mi chiedo: perché una questione così importante è stata trattata con tanta, evidente trascuraggine e approssimazione?
Spesso è accaduto, nei decenni trascorsi, che si sia messo mano alla scuola agitando contenuti didattico – educativi innovativi e nuove architetture curricolari, ma sempre obbedendo alla regola del “buscar el Levante por el Poniente”, cioè a dire con finalità altre rispetto alle apparenti: da quelle di trovare comunque un lavoro agli intellettuali “a funzione sociale diffusa” (così venivano definiti un tempo i docenti), a quelle di fare cassa, come è accaduto per il riordino (almeno si è avuto il pudore di non chiamarlo riforma) Tremonti-Gelmini del 2009 che, dietro le idealità e i voli pindarici, ha perseguito un mero, brutale taglio delle risorse, pari a circa 10 miliardi di Euro in un triennio (senza contare il miliardo circa di Euro non più restituito dallo Stato alle scuole che, con la propria cassa, avevano tra l’altro pagato, com’era loro dovere, stipendi e compensi d’esame a docenti e personale).
Dopo altri e successivi tagli, meno violenti, ma comunque sensibili (ad esempio, la costituzione coatta di grandi, spesso abnormi istituti comprensivi, senza che vi fosse sottesa una logica di sistema, come fu nel caso della inapplicata riforma Berlinguer, ha avuto evidenti scopi economici), la “Buona Scuola” renziana ha visto la luce alla fine del 2014, a ridosso cioè della sentenza della Corte Europea di Giustizia sul precariato, che ha condannato l’Italia a causa dell’abitudine inveterata di stipulare contratti protratti sine die, ben oltre i 36 mesi consentiti.
Il pericolo che si affacciava allora (e che si affaccia ancora all’orizzonte) era quello di 250.000 casi di possibile ricorso, con annesse richieste di risarcimento (ricordo che nel DDL originario – art. 8 – era previsto un fondo di 10 milioni per il pagamento delle multe!), nonché l’intervenuta impossibilità ad assumere per il prossimo anno scolastico, ancora con contratti a tempo determinato, gli indispensabili docenti e il personale che avessero già alle spalle 36 mesi di servizio retribuito. Di qui la necessità urgente di “sanare” al più presto la situazione.
Il testo pasticciato e a tratti incoerente e incomprensibile della “Buona Scuola” è il risultato della fretta ed è la foglia di fico che copre la vergogna della peraltro doverosa “sanatoria” del precariato storico.
Se queste sono le premesse, si comprendono anche gli orecchiamenti e le false novità di cui è intessuto il DDL. Solo qualche esempio: l’autonomia della scuola è ormai un fatto conclamato da almeno quindici anni; il richiamo allo studio dell’inglese nella primaria, alle nuove tecnologie, alla “didattica laboratoriale” idem; la “novità” dell’opzionalità nel curricolo, meramente aggiuntiva dell’intero scibile umano, non fa che riprendere quello che già era contemplato in diverse delle precedenti disposizioni e mai attuato, non per mancanza di norme, ma per mancanza di risorse; lo sbandierato (pseudo) organico funzionale è semplicemente l’insieme delle risorse destinate giocoforza alla copertura delle supplenze (altro che ampliamento dell’offerta formativa!); del preside-manager si è detto di tutto e da anni, senza neppure arrivare a definire un modello per la sua valutazione. Si potrebbe continuare.
E poi gli ammiccamenti alla retorica del decisionismo (“non cederemo di un millimetro”, “andremo avanti comunque”, “abbiamo la testa dura” – affermazione quest’ultima che sottoscrivo in toto), ma, soprattutto, alla ben più grave retorica del merito e della valutazione, fatta propria da un ministro glottologo della PI che dice “votate ministrum”, da un presidente del consiglio che parla di “cultura umanista”, da un sottosegretario come Davide Faraone, che vede i dirigenti scolastici come sindaci e più in generale da un Parlamento di nominati, costituzionalmente illegittimi, senza alcun merito se non quello di obbedire agli ordini dei capicorrente. Sarà dunque proprio questo il Parlamento che dovrà legiferare sul merito degli insegnanti e del personale tutto della scuola?
Ritengo invece che sia urgente un’operazione-verità. L’Europa ci chiede di risolvere sul piano normativo la questione, davvero insostenibile e incivile, dei precari mantenuti in servizio per anni a tempo indefinito. Risolviamola, questa questione, subito, in quanto tale, con un decreto ad hoc, senza fare fumo e mescolare tutto in un insieme di riforme nebulose e ingestibili, dove le lacune, i non liquet, le aporie e le contraddizioni sono a tutti evidenti, anche agli estensori del testo (il peso delle deleghe su talune questioni-chiave, pur diminuito rispetto alla formulazione originaria dell’art. 21, resta sempre eccessivo). Tutto ciò non potrà non condurre alla paralisi o all’inanità. Per dirla in forma letteraria, si corre il rischio concreto di fare “much Ado about nothing”.
Ritorniamo piuttosto al concetto del mosaico (Berlinguer) o del cacciavite (Fioroni). Smettiamola di parlare di “riforma della scuola”, quasi si trattasse di affrontare un oggetto monolitico e dai contorni definiti una volta per tutte.
La scuola di un Paese moderno e che vuole restare democratico non è un organismo omogeneo e unidirezionale, ma un sistema complesso, aperto e cangiante e come tale va governato e modificato, articolando risposte viabili segmento per segmento, cercando la massima semplicità possibile delle soluzioni, stabilendo priorità e, soprattutto avendo ben chiare le conseguenze che ogni intervento dovrà produrre.

LA BANALITÀ DEL MALE di Giuseppe Gristina


Ricevo e pubblico una riflessione di Giuseppe Gristina su un tema che dovrebbe tornare al centro dei nostri pensieri di abitanti della “polis”, anche nell’imminenza del settantesimo anniversario della Liberazione dal Nazifascismo, occasione ahinoi meramente celebrativa di un evento che si tende più a “ricordare” che a “riconoscere” nella nostra prassi quotidiana di cittadini.

“Un tempo, non lontanissimo, nelle nostre valli prealpine e alpine era molto frequente il riscontro di una patologia tiroidea caratterizzata da un’ipofunzione grave legata all’endemica carenza di iodio in quei territori.

Si manifestava con 2 segni: il gozzo e la ridotta performance intellettiva. Quest’ultima era definita «cretinismo endemico».

Non era un insulto. Era una constatazione epidemiologico-clinica.

In tempi come i nostri, caratterizzati da un rigurgito imponente d’ignoranza e comportamenti tribali, potremmo far valere la proporzione secondo la quale la mancanza di iodio sta al «cretinismo endemico» come la mancanza di cultura sta al «cretinismo morale».

Anche il cretinismo morale è una constatazione, in questo caso epidemiologico-etica, non un insulto.

C’è poi l’allegra e spensierata sfrontatezza degli ignoranti i quali – misconosciuto il primato della cultura – pensano di cogliere la loro grande occasione facendosi vanto dell’aver trascorso ben 12 anni all’università come fuori-corso senza mai laurearsi, per poi intraprendere una brillante carriera politica solo perché questi sono tempi di nani e ballerine.

Oggi, il signor Salvini, che esclamò «arriverà prima la Padania della mia laurea!» e che è stato definito ufficialmente «fannullone» in pieno Consiglio d’Europa per non aver mai partecipato ai lavori della commissione in cui era inserito, vuole «radere al suolo» i campi Rom.

Radere al suolo: parole che vengono da lontano.

Fu raso al suolo il ghetto di Varsavia. Nei campi di sterminio furono rase al suolo le comunità Sinti, Rom e quelle Yiddish del centro – Europa. A Roma il 16 ottobre del 1943, non per un caso un sabato, alle 5:15 del mattino le SS invasero le strade del Portico d’Ottavia rastrellando 1259 persone, tra cui oltre 200 bambini. Due giorni dopo, alle 14:05, 18 vagoni piombati partirono dalla stazione Tiburtina e dopo 6 giorni arrivarono ad Auschwitz. Solo 15 uomini e una donna ritornarono. Nessuno dei 200 bambini è mai tornato. La comunità ebraica di Roma fu «rasa al suolo».

Ecco, quello del signor Salvini non è cretinismo morale; potremmo definirlo piuttosto come la sua forma involutiva. Potremmo definirlo «la banalità del male», come fecero Hannah Arendt e Primo Levi; una parte integrante ma oscura della natura umana che rischia, «in occasioni opportune», di riemergere e trionfare.

Ne I sommersi e i salvati Primo Levi dice: «I carnefici erano infatti della nostra stessa stoffa […], erano esseri umani medi […] non erano mostri […] avevano un viso come il nostro». Chi compie il male non è un mostro, una persona assolutamente diversa da chi lo subisce; è un essere umano come gli altri e, proprio in ciò sta la banalità del male: chiunque altro avrebbe potuto compierlo.

Ancora, in Se questo è un uomo, Primo Levi chiese a un altro deportato: «Warum?» (Perché?). La risposta fu: «Hier ist kein Warum!» (Qui non c’è alcun perché!).
La notte del 10 maggio 1933, nella Germania nazionalsocialista, iniziò la campagna a favore dei Bücherverbrennungen (roghi di libri) propagandata dall’ufficio stampa dell’Associazione Studentesca della Germania che proclamò una «azione nazionale contro lo spirito non tedesco», durante la quale si doveva effettuare una «pulizia» della cultura tedesca usando il fuoco. Questa propaganda fu diffusa anche via radio.
Quella notte gli studenti bruciarono più di 25.000 libri «non tedeschi».

I professori, i rettori e gli studenti furono radunati alla presenza delle autorità naziste per assistere ai falò al suono di orchestre in un’atmosfera di gioia.

Durante i roghi furono bruciati i libri scritti da Bertold Brecht e August Bebel, i libri di Karl Marx, quelli di Arthur Schnitzler, Ernest Hemingway, Jack London, Helen Keller, Herbert George Wells, oltre ai libri di autori ebrei quali Franz Werfel, Max Brod, Stefan Zweig.

In sintesi, siamo abituati a collegare la banalità del male alle violenze dei campi, ai vagoni dei deportati, alle loro facce scheletrite, ai falò, perché istintivamente alle parole leghiamo immagini del passato. Ma questo è un errore.

Infatti è del tutto evidente che il signor Salvini non è neppure minimamente paragonabile a un SS.

Così, non vedendo oggi intorno a noi rappresentazioni fisicamente concrete di quella realtà, siamo indotti a credere che parlare di banalità del male sia un’esagerazione, un’iperbole di chi a furia di tentar di comprendere, è ormai vittima della presunzione di spiegare tutto il presente attraverso il passato.

Forse, più semplicemente, il signor Salvini ha la rivoluzionaria ambizione – dicendo tutto ciò che dice e trascinando con sé il peggior becerume italico – di arrivare a indossare finalmente un doppio petto al posto della felpa. D’altronde altri ci sono riusciti, dunque perché non anche lui? E forse è questa una delle differenze tra il nuovo secolo e il ‘900: tutto il Male che nel secolo scorso è stato fatto, è stato comunque tragicamente e per la gran parte pagato dai responsabili. In questo secolo, in un paese di poveri ignoranti, è invece sufficiente aspettare con pazienza il proprio turno in prossimità del camerino per entrare, cambiarsi d’abito ed essere finalmente pronti a partecipare alla grande kermesse.

Ma allora, è ancora possibile parlare oggi della banalità del male? Se si, e se quella del signor Salvini non è la banalità del male che caratterizzò i totalitarismi del secolo scorso, in cosa essa  realmente consiste?

Forse, una nuova forma della banalità del male cui anche noi ci stiamo abituando c’è.

Si tratta, per dirla con Roberta de Monticelli, «di un fenomeno identificabile con l’appiattimento del dover essere sull’essere, del valore sul fatto, della norma sulla pratica comune, anche se abnorme, e in definitiva del diritto sul potere». E, potremmo aggiungere, della cultura sulla tecnica.

I Rom rubano? Se questo è un «fatto reale» allora è inutile discutere del valore morale della convivenza, è «normale» la risposta tecnica di radere al suolo i campi; i migranti che arrivano sui barconi sono troppi? Se questo è un «fatto reale», allora è inutile discutere del diritto d’asilo e dell’accoglienza, è «normale» la risposta tecnica di ributtarli in mano ai mercanti di uomini in nome del potere che abbiamo di farlo.

Così, delle tre dimensioni di un sano mondo morale – conservazione del sé, riconoscimento dell’altro, rispetto della giustizia – che costituiscono il nesso che lega il significato della parola «norma» a quello della parola «normalità», non è rimasto nulla.

Forse è proprio questo il nuovo significato da dare alla banalità del male: la rifondazione del significato delle parole «norma» e «normalità»; non più la regola di responsabilizzazione che l’uomo riceve da una fonte morale esterna (la religione, la legge, la Costituzione), o interna (la propria coscienza) volta a orientare la sua intenzionalità e ciò che nella norma rientra, cioè il suo comportamento, ma semplicemente il primato dei fatti sui valori, della pratica comune sulla legge, del potere sul diritto.

Se però il senso della banalità del male è cambiato, quello che resta uguale, oggi come allora, è la nostra responsabilità.

Evitare il coinvolgimento, non vedere, non sentire e, se possibile, guadagnarci qualcosa.

Da questa responsabilità non sono esenti i cittadini ma soprattutto non lo è la classe politica.

Si comprende allora che nel nostro tempo, come allora, quelle «occasioni opportune» di cui parlavano Hannah Arendt e Primo Levi altro non sono se non gli spazi vuoti lasciati ai vari Salvini dalla politica che, morto Aldo Moro, scelse compattamente di abdicare al suo ruolo di mediazione e di tutela delle libertà individuali nell’ambito della comunità, di cerniera tra mondo morale e mondo reale, e, in ultima analisi, tra identità nazionale e cultura.

Questa politica riconoscendo il primato del puro economicismo non solo ne legittima le forze «animali» che lo caratterizzano, ma ammette che esse non debbano più venire a patti con nessuno e che governino davvero il mondo.

In sintesi, il primato dello sviluppo anziché del progresso preconizzato da Pasolini negli Scritti Corsari.

Ancora Pasolini scrisse nel 1975 nelle Lettere Luterane: «l’Italia di oggi è distrutta esattamente come l´Italia nel 1945. Anzi, certamente la distruzione è ancora più grave, perché non ci troviamo tra macerie, pur strazianti, di case e monumenti, ma tra macerie di valori: valori umanistici, e, quel che più importa, popolari».

E poi: «Il fondo del mio insegnamento consisterà nel convincerti a non temere la sacralità e i sentimenti, di cui il laicismo consumistico ha privato gli uomini, trasformandoli in brutti e stupidi automi adoratori di feticci».

Chissà se non sia stato proprio questo auto-svuotamento morale che Primo Levi vide ripresentarsi pian piano nel nostro paese in tutto il tempo tra il suo ritorno da Auschwitz e quell’11 aprile del 1987 e che ha finito per rappresentare la risposta alla sua domanda: «Warum? ».”

Il nuovo Disegno di Legge sulla Scuola


Rispetto al Documento sulla “Buona Scuola” pubblicato nel settembre dell’anno scorso e qui commentato, il DDL licenziato di recente dal governo Renzi e ancora da calendarizzare in commissione, contiene novità, novità apparenti, questioni taciute, criticità.

Prima novità: il rafforzamento delle funzioni e dei compiti del Dirigente Scolastico (DS), cui spetta (art. 2 c. 9) di formulare il Piano dell’Offerta Formativa e  affidare gli incarichi di docenza, triennali e  rinnovabili (art. 2 c. 11). Tale rafforzamento viene giustificato (art. 2 c. 1) come mezzo per “garantire un’immediata e celere gestione delle risorse”, attribuendo implicitamente alla gestione collegiale della scuola, così come prevista dai Decreti Delegati del ’74, la responsabilità per la lentezza e l’inefficienza dell’amministrazione scolastica. Il DS opera, “sentito il Collegio dei docenti e il Consiglio di Istituto”, “nonché” fantomatici “principali attori economici, sociali e culturali del territorio”. I due Organi di governo della scuola sono dunque ridotti a meri consulenti (peraltro non si sa con quali modalità e poteri), pur in vigenza (“nelle more della revisione del quadro normativo di attuazione dell’art. 21 della L. 59/97”, dice il testo all’art. 2, c. 1) di una Legge che ne stabilisce un ruolo propositivo e deliberativo fondamentale e non aggirabile. Il DS rafforzato procede dunque, in sostanziale solitudine (anche se i suoi collaboratori possono passare da due a tre) alla elaborazione del Piano, che deve essere pronto entro ottobre e che deve comprendere finalità, obiettivi, programma, risorse umane e materiali.[1] Sempre nelle more di cui sopra (art. 7, c. 1), il DS è altresì responsabile delle scelte didattiche e formative e della valorizzazione delle risorse e deve rendere trasparenti i criteri con cui, attingendo ai costituendi albi territoriali dei docenti (per il personale tecnico-amministrativo e ausiliario, ci saranno ancora le supplenze? Non è detto) affiderà gli incarichi triennali ai docenti e fornirà spiegazioni circostanziate per le sue scelte. Tutto ciò in un quadro giuridico che è eufemismo definire fluido, gravido quindi di ricorsi al TAR, se non ai tribunali ordinari e per un compenso annuo aggiuntivo lordo di circa € 1600. Al c. 3 dell’art. 7, si legge, tra i criteri di attribuzione degli incarichi ai docenti, la possibilità dell’USR di sostituire il DS “in caso di inerzia”. E’ evidente che l’inerzia non è termine giuridicamente pregnante, né la sostituzione del DS può far parte dei criteri di attribuzione degli incarichi.

Seconda novità: l’organico funzionale della scuola autonoma (art. 2 c. 1). Si tratta di una disposizione che accoglie una richiesta avanzata da tempo dalle scuole, messa in pratica, diversi anni fa, da un gruppo di istituti in via sperimentale e poi abbandonata a causa della progressiva riduzione delle risorse. L’organico funzionale così come viene proposto è però tutt’altra cosa rispetto a quello già esperito in passato. Esso infatti non coinvolge l’intero organico della scuola, ma è solo uno dei tre sottoinsiemi in cui esso risulta ripartito: posti comuni, posti di sostegno e, appunto, posti funzionali. Si lascia intuire una sorta di gerarchia, in cui la primazia spetta ai posti comuni, seguiti da quelli di sostegno e infine da quelli di organico funzionale, destinati a surrogare le supplenze.[2]

Terza novità: la triennalità del Piano dell’Offerta Formativa d’Istituto (art.2 c.4). Opportuno il “respiro” più lungo che un Piano disteso su diverse annualità offre alle scuole, di dubbia praticabilità la procedura che condurrebbe alla sua attuazione. Una volta elaborato e definito (non si dice che debba essere ancora approvato dal Collegio dei docenti e adottato dal Consiglio di Istituto, già “sentiti” in precedenza) il Piano deve passare al vaglio dell’Ufficio Scolastico Regionale, “in termini di compatibilità finanziaria e coerenza con gli obiettivi” e infine del MIUR, per poi diventare efficace a febbraio per l’anno scolastico successivo. Mi chiedo: quale “azienda” progetta e programma senza sapere prima di quali risorse dispone? Se una scuola dovesse “esagerare” nelle richieste, chi, dove e con che criteri dovrebbe “tagliare” il Piano proposto? Sarebbe stato senz’altro più corretto fornire alle scuole autonome fin dall’inizio dell’anno un fondo globale unico e certo, tarato sul numero degli iscritti, su cui far  confluire tutti gli esigui e frammentati finanziamenti di cui si parla nel DDL e gli eventuali finanziamenti privati. Se un DS rafforzato conoscesse, come accade per le scuole paritarie, quanto ogni iscritto porta all’istituto, potrebbe progettare con maggiore cognizione di causa e senza sbandamenti.

Quarta novità: la triennalità degli incarichi di docenza (art. 6). Al c. 2 si dice che l’organico si costituirà su base regionale, con cadenza triennale e che il riparto delle risorse sarà effettuato in base al numero delle classi e, tra l’altro, alla presenza di “aree interne” (non si capisce bene cosa si voglia dire: lontane dal mare? Montane? Svantaggiate?) E’ da tale organico che i DS attingeranno per stipulare i contratti triennali rinnovabili, fatte salve le garanzie per il personale attualmente di ruolo, come al già citato art. 7 c. 4. All’art. 2 c. 13 è altresì specificato che il DS sceglierà i docenti “di concerto con il Collegio dei docenti e sentito il Consiglio di istituto”. Non vi è chi non veda l’ambiguità normativa di quel “di concerto”. Resta non del tutto chiaro se, progressivamente, dall’entrata in vigore della legge in avanti, non ci sarà più personale “di ruolo” a tempo indeterminato, ma solo a contratto, né se i concorsi di cui si parla all’art. 8 c. 13 saranno indetti per alimentare gli albi territoriali in generale o ciascuna delle tre parti organiche (posti comuni, posti di sostegno, posti funzionali).

Quinta novità: la Carta del docente (art. 11). Si istituisce una sorta di “carta di credito culturale”, assai simile per ammontare e spirito soccorrevole alla tremontiana “carta di credito per gli incapienti”. Si tratta di € 500 annue per spese legate all’aggiornamento, alla cultura e per le quali si dovrà attendere un apposito regolamento applicativo. Se questa è la “mancia” per i professori desiderosi di migliorare il proprio livello culturale, per la formazione, che è finalmente detta “obbligatoria, permanente e strutturale” si stanziano 40 milioni di Euro (poco più di € 50 per ogni docente).

Prima novità apparente: l’ art. 3 ha un titolo, “percorso formativo degli studenti”, con cui si vuole sottolineare la centralità dell’apprendimento e la possibilità concreta di aprire la scuola (secondaria superiore in particolare) all’opzionalità dei percorsi formativi. A tal proposito, all’art. 2 c. 3 si elencano, in modo peraltro disomogeneo gli ambiti di arricchimento e di flessibilità curricolare, che comprendono un poco tutto lo scibile, dalla musica alla storia dell’arte, dal diritto alla logica, dal rispetto del paesaggio e dei beni culturali all’italiano lingua 2 e così via.[3] In realtà tutto ciò è presente da anni nelle disposizioni normative che regolano l’autonomia scolastica, anche se largamente inattuato a causa delle rigidità di sistema e della cronica mancanza di adeguate risorse. Stesso discorso per la riproposizione del Portfolio, sotto i nomi di Curriculum dello Studente e di Identità Digitale.

Seconda novità apparente: l’alternanza scuola-lavoro (art. 4). Si ribadisce qui quanto già previsto e attuato da diverse istituzioni scolastiche, soprattutto nell’ambito della formazione professionale. Interessante e nuova è l’introduzione dell’obbligo dell’alternanza anche per i licei, in misura di 200 ore (7-8 settimane) per l’intero triennio e l’esplicita apertura al terzo settore e agli enti di promozione e gestione della cultura. Assai limitativa appare tuttavia la motivazione iniziale: “al fine di incrementare le opportunità di lavoro degli studenti”. Si tratta di un obiettivo difficilmente raggiungibile in così poco tempo e sembra rappresentare la “via italiana al sistema duale tedesco”, già annunciata dal Documento settembrino sulla Buona Scuola, ma con un respiro ben più corto e velleitario.  Molto più importante sarebbe stato invece sottolineare e perseguire l’importanza  educativa e didattica dell’introduzione nella scuola del lavoro come sistema di valori e di conoscenza della realtà.

Terza novità apparente: innovazione digitale e didattica laboratoriale (art. 5). E’ un “mantra” ripetuto da tempo e che trova crescente attuazione nelle scuole italiane, dove la strumentazione didattica informatica e digitale è in aumento costante, compatibilmente con i livelli generali del Paese, certo non lusinghieri se paragonati al resto d’Europa. Spiace però constatare che la didattica laboratoriale è qui identificata con le attività di laboratorio e che ci sia un accentuato orientamento verso l’occupabilità immediata e la promozione del prodotto sul mercato (tra gli obiettivi leggiamo “l’orientamento della didattica e della formazione ai settori strategici del Made in Italy), piuttosto che al raggiungimento di obiettivi pedagogici e didattici più generali e duraturi, che debbono coinvolgere tutte le discipline e non solo quelle più propriamente laboratoriali.

Prima criticità: il piano assunzionale (sic!) straordinario. All’art. 8 si affronta la questione che sta maggiormente a cuore ( et pour cause) al presidente Renzi, tanto di averlo indotto inizialmente a pensare a un Decreto Legge: la stabilizzazione dei precari “storici” e dei vincitori di concorso 2012, che  saranno “assunti” ciascuno per il 50% del totale, ma solo su due delle tre parti costitutive del nuovo organico, quella dei posti comuni e quella dei posti di sostegno. Si tratta di un provvedimento che , ancora una volta, “sana” una stortura prodottasi nel tempo dal mancato governo della scuola, ma con criteri meramente quantitativi. Inoltre si assumerà un numero molto più ridotto di docenti rispetto ai 150.000 sbandierati nel Documento di settembre 2014 e  non si eliminerà il ricorso alle supplenze, rispetto alle quali il DDL si vede costretto a recepire la recente sentenza europea che inibisce contratti a termine più lunghi di 36 mesi (a questo proposito è previsto anche un fondo per pagare le multe, 10 milioni di Euro!). Data la delicatezza del tema, che coinvolge decine di migliaia di docenti e le loro famiglie, deve essere detto con chiarezza se si tratta di tradizionali immissioni ruolo o se, come pare più probabile, visto l’impianto generale del testo per quanto riguarda il reclutamento, di un inserimento negli albi territoriali da cui i DS attingeranno per conferire gli incarichi triennali. Lo stesso dicasi per il reclutamento successivo, che avverrà solo su base concorsuale (art. 8 c. 13).

Seconda criticità: il riconoscimento del merito. Se ne parla all’art. 10 e rientra anch’esso nelle facoltà del DS, che assegna la somma premiale “sentito” il Consiglio di istituto. Non il Collegio dei docenti (per conflitto di interessi?) che è invece l’organo naturalmente competente per valutare il merito didattico di un insegnante. La somma stanziata è di 200 milioni di €, pari ad un importo teorico pro-capite di € 250 annui, a partire dal 2016. Nulla si dice a proposito del numero di docenti cui attribuire il riconoscimento del merito. Potrebbe verificarsi il caso di una scuola in cui tutti (o quasi) gli insegnanti “meritino” allo stesso modo? Inoltre appaiono assai vaghi, e quindi pericolosi per il DS rafforzato, i criteri generali per la scelta che avverrà “sulla base della valutazione dell’attività didattica, in ragione dei risultati ottenuti in termini di qualità dell’insegnamento, di rendimento scolastico degli alunni e degli studenti, di progettualità della metodologia didattica utilizzata, di innovatività e di contributo al miglioramento complessivo della scuola.” Dovendo basare le sue scelte su parametri oggettivi, basterà al DS calcolare la media degli studenti promossi e constatare se l’insegnante fa uso di tablet, LIM e laboratorio?

Poi ci sono le “questioni taciute”.

Nell’intero documento non si parla mai del personale tecnico-amministrativo e dei  collaboratori scolastici. In verità il primo è nominato come soggetto di formazione sulle nuove tecnologie informatiche e sulla scuola digitale, mentre dei secondi si tace completamente. Né l’uno né gli altri sembrano far parte delle risorse da programmare. Si prelude con ciò alla privatizzazione del servizio di vigilanza e pulizia, alla scomparsa della figura del bidello?

Che ne sarà del Direttore dei Servizi Generali (e non Gestionali, come erroneamente detto all’art. 5 c. 3  del testo) e Amministrativi (DSGA)?

Altra “questione taciuta” in questo DDL è quella delle Reti di scuole sul territorio, mai neppure citate, come pure del connesso organico di rete. Le scuole sembrano essere destinate a far tutto da sole oppure a consorziarsi su base volontaria. Ampio spazio è poi destinato:

  • alla digitalizzazione, agli open data (all’art. 14, si prevede un Portale Unico per lascuola, per il quale si stanzia 1 milione di Euro; speriamo che si vigili sulla sua realizzazione un poco di più di quanto si è fatto per l’altro portale, il Portale Italia, costato un Perù e rivelatosi radicalmente inutile);
  • alla possibilità di destinare il 5 x 1000 anche alle scuole, si spera in surroga del versamento volontariamente obbligatorio che quasi tutte le famiglie fanno alle scuole per permettere loro di funzionare;
  • all’istituzione di uno “school bonus(art. 16: “buono scuola” non è stata considerata locuzione altrettanto significativa), che estende ai finanziamenti dei privati alla scuola la ratio già utilizzata con successo per le ristrutturazioni edilizie.

Il DDL non tralascia di intervenire anche sulla disastrosa situazione dell’edilizia scolastica, stanziando, bizzarramente, 40 milioni per evitare il crollo dei solai (art. 20, c. 1): e se cade un cornicione, una gronda, un terrazzino? Le risorse destinate agli edifici (300 milioni di Euro) sono decisamente  poche e in più si fa sinistramente menzione di una “struttura di missione”, dello stesso tipo di quella balzata alla ribalta della cronaca nera con il caso Incalza.

Alle famiglie che iscrivono i propri figli alle scuole private paritarie si offre un contributo di € 400 annui (sostanzialmente pari ad un mese di retta) per ciascun alunno, ma solo della primaria e secondaria di primo grado. La giustificazione data dagli estensori del DDL per l’esclusione delle secondarie di secondo grado “paritarie” (e sottolineo “paritarie”) è grottesca: dato che ancora non si riesce a discriminare i diplomifici e le scuole serie, il contributo non lo diamo a nessuno. Mi chiedo: non esiste un servizio ispettivo? Perché ammettere e tollerare che, oggi, ci siano in Italia delle scuole “paritarie” che rilasciano dei diplomi di carta straccia?

Solo all’art. 21 si introduce un’ampia e complessa delega al riordino legislativo, che si spera preluda alla stesura di un nuovo Testo Unico sulla scuola e che è il trave su cui poggia l’intera costruzione del DDL. Senza l’attuazione di tale delega, che interessa il funzionamento e il governo della scuola, tutto l’impianto disegnato dal DDL sarà mero flatus vocis.  Melanconicamente, l’art. 24 chiude sostanzialmente la proposta con tante “NNN” al posto delle cifre per le coperture finanziarie e con un ulteriore fondo di parte corrente di poco oltre i 200 milioni di Euro (per una media di € 260 a istituto), genericamente finalizzati alla “Buona Scuola”, al “miglioramento e alla valorizzazione dell’istituzione scolastica” che non si capisce bene a cosa debba essere applicato.

In estrema sintesi: qualche piccola luce si è accesa, ma la caligine giuridica e procedurale resta preoccupante. E’ evidente il forte squilibrio nel sistema di governo della scuola, sostanzialmente in capo del solo DS, con la implicita cancellazione della rappresentanza dei portatori di interessi (stakeholders) e senza le necessarie garanzie che un solido quadro normativo di riferimento può offrire.

Non c’è che sperare in un decisivo, ampio e competente intervento risanatore del Parlamento.

[1] Si tratta di un modus operandi che riconosco nel più generale agire della presidenza renziana: bisogna fare in fretta (“celere gestione”), le procedure collegiali sono degli intralci all’azione di governo (il Collegio dei docenti, il Consiglio di Istituto, un po’ come il Parlamento), la soluzione è quella dell’uomo solo al comando, che avoca a sé “e alla sua squadra” le funzioni di proposta, gestione e controllo. A tal proposito, sintomatica e paradigmatica assieme appare la funzione “salvifica” attribuita di volta in volta al giudice Cantone, l’Uomo Giusto che, un po’ come il santo Re Luigi di Francia, viene chiamato dappertutto a imporre le mani e a sanare, sempre in via straordinaria, la corruzione dilagante (si è parlato in queste ore di lui anche come possibile successore di Lupi al Ministero delle Infrastrutture).

[2] Inoltre si provvede a “congelare” lo status quo per i docenti a tempo indeterminato, che restano al riparo dall’assegnazione degli incarichi triennali fatta dal DS, purché non si muovano dalla sede che occupano al momento dell’entrata in vigore della Legge (art. 7 c. 4).

[3] Tra questi merita attenzione, al c. 14, la lingua inglese nella primaria:  essa verrà impartita utilizzando insegnanti di lingua madre, specialisti, “ovvero mediante la fornitura di appositi servizi”. Privati?

UN APPROCCIO OLISTICO ALL’EREDITÀ CULTURALE ANCHE PER LA SCUOLA


Pubblicato anche in: http://www.educationduepuntozero.it/curricoli-e-saperi/salone_266-40157278315.shtml

Mi rifaccio qui all’interessante articolo di Giuliano Volpe, apparso sul numero dello scorso  gennaio della rivista “Ananke 74”, “FRANCESCHINI (2014) DOPO FRANCESCHINI (1966): PER UNA VISIONE OLISTICA DEL PATRIMONIO CULTURALE E PAESAGGISTICO”, pp. 34 – 40, nel quale, tra l’altro, si sostiene un approccio “multidisciplinare, integrato, globale e olistico” alla questione della tutela, della valorizzazione e della gestione della nostra straordinaria Eredità Culturale, con un conseguente forte sostegno alla ricerca e alla formazione specifica nel settore, nonché a nuove strategie di protezione e di comunicazione.

Il contenuto dell’intervento mi trova pienamente d’accordo, soprattutto per l’orizzonte culturale aperto e coraggioso che esso traccia, anche al di là dell’immediata attuazione normativa di taluni dei principi enunciati.

In particolare, nel  paragrafo 7 dell’articolo, dal titolo “Un’azione coesa tra MIBACT e MIUR”, si auspica una maggiore collaborazione tra i due Ministeri nel campo della formazione universitaria, “per una revisione della formazione universitaria nel campo dei Beni culturali, ponendo fine a quelle logiche autoreferenziali che hanno creato tanti guai in questi anni, con professionalità improbabili, percorsi formativi disomogenei a livello nazionale, inutili duplicazioni”, constatando altresì le difficoltà in cui versano oggi gli indirizzi di laurea in Beni Culturali (“Le iscrizioni ai corsi di studio nei Beni Culturali sono crollate, molti corsi sono stati già chiusi e altri chiuderanno a breve, a causa della mancanza di reali prospettive lavorative”).

Qui vorrei aggiungere un altro possibile, importante  “terreno di collaborazione” tra i due Ministeri, MIBACT e MIUR, quello della scuola superiore e, segnatamente, del liceo, classico, ma non solo. È necessario infatti prestare la massima attenzione alla sorte della cultura classica e, più in generale, della “tradizione” della nostra Eredità Culturale in questa fondamentale fase del percorso formativo delle giovani generazioni, prima che entrino all’Università.

Da diversi anni registriamo un costante affievolirsi delle iscrizioni, evidente soprattutto al liceo classico (le scelte, che  nove anni fa superavano il 10%, sono calate ulteriormente quest’anno dal 6% al 5,5%;  negli ultimi tempi si è avvertito qualche “scricchiolio” anche per il liceo scientifico “tradizionale”, quello cioè che conserva ancora il latino).  In corrispondenza, assistiamo ad un impetuoso accrescimento dei nuovi licei “senza latino”, ad esempio il liceo linguistico,[1] raddoppiato in pochi anni,  e il liceo scientifico delle scienze applicate (compreso il recentissimo liceo dello sport).

Si tratta di un fenomeno ineluttabile, dovuto allo Spirito del Tempo, che soffia inesorabilmente in un’altra direzione, o si può e si vuole fare ancora qualcosa?

Mi chiedo se non sarebbe opportuno che Università, MIUR, MIBACT, Enti di Ricerca, Soprintendenze, Scuole si incontrassero per ridefinire un “Canone” per l’apprendimento della nostra Eredità Culturale, un Canone che non si limiti a comprendere, come è oggi largamente inteso, lo studio delle lingue antiche, le opere letterarie e filosofiche e la manualistica della Storia dell’Arte (peraltro colpevolmente ridotta negli ultimi provvedimenti di riordino), ma anche l’archeologia, il diritto, l’antropologia, tutti approcci disciplinari che, opportunamente intessuti, consentirebbero di dare un senso e una motivazione più forti all’apprendimento stesso. Come ha giustamente osservato Maurizio Bettini in un articolo pubblicato nel 2013 su “La Repubblica”, “perché mai un ragazzo in età da ginnasio dovrebbe volontariamente sottoporsi alla tortura delle declinazioni o della sintassi, senza vedere qual è lo scopo di tutto ciò?

Da parte di chi difende il liceo classico “così com’è” si continua a ripetere che:

  • A) – il latino e il greco sono discipline formative per eccellenza, che insegnano a ragionare come nessuna altra può fare;
  • B) – tradurre una versione dal latino o dal greco è esercizio difficile, ma produttivo, equiparabile a quello della risoluzione di un problema di matematica;
  • C) – il liceo classico forma “la classe dirigente” del nostro paese: statistiche alla mano, da questa scuola escono infatti gli studenti con il più alto successo universitario e i migliori esiti professionali.

Pur non negando i grandi meriti storici e l’ancora attuale efficacia del liceo, classico – ma anche scientifico – italiano, mi permetto di osservare che :

  • A) – qualunque percorso disciplinare non insegnato mnemonicamente, ma in maniera critica (direi più socratica e meno isocratea),  centrato sul cogliere gli scarti, le differenze più che le continuità, nel corso del quale si insegni a formulare domande più che a fornire risposte già date da altri, può essere altrettanto formativo;
  • B) – per esperienza diretta, ho potuto constatare che, al termine di cinque anni di liceo classico, in cui il latino e il greco vengono insegnati per 9 ore settimanali nel biennio ginnasiale e 7 nel triennio liceale, forse appena un terzo degli studenti è in grado di tradurre un testo di media difficoltà dalle due lingue antiche. Proviamo ad immaginare gli stessi risultati per una qualsiasi lingua moderna insegnata con il medesimo monte-ore: sarebbe un clamoroso fallimento;
  • C) – “statistiche alla mano”, il liceo, classico e scientifico, è già la scuola migliore “ab origine, poiché drena i migliori studenti della scuola media, la quale, lungi dall’essere la scuola dell’orientamento, si limita spesso a indirizzare al classico e allo scientifico gli alunni “più bravi”.  Sarebbe utile piuttosto interrogarsi sul valore aggiunto che questo tipo di scuola  è in grado di offrire a ragazze e ragazzi che, nella stragrande maggioranza dei  casi, si iscrivono alla I liceo (o al IV ginnasio) già motivati, ben attrezzati sul piano dei contenuti appresi e con alle spalle famiglie spesso culturalmente consistenti. Sarebbe altrettanto interessante misurare il “valore formativo” del latino e del greco così come sono oggi insegnati nel caso di ragazzi in difficoltà sul piano della motivazione e con un back-ground culturale povero. In realtà, in queste circostanze, opera spesso una selezione paragonabile ad una “discesa agli Inferi”:  dalla vetta liceale non attinta  si dovrà “scendere” al liceo linguistico, poi al liceo psico-pedagogico, oppure, ma siamo oramai nelle Malebolge, all’istituto professionale.  Con una strategia di orientamento del genere, non è certo un caso se il tasso di dispersione scolastica in Italia è ancora molto alto, più alto della media europea.

Di qui la necessità di un approccio “olistico” all’Eredità Culturale e, segnatamente, al mondo classico, anche nella scuola, capace di recuperare senso e motivazione per lo studio dell’antico, così che l’apprendimento  della cultura greca e latina non venga più usato come mera barriera per selezionare i migliori,  attraverso un percorso iniziatico tutto grammaticale, in cui le forme dell’aoristo, le regole della contrazione, la consecutio temporum appaiono come eidola inesorabili e che spesso, ahinoi, restano muti.

Torniamo alla “protezione e alla comunicazione” dell’eredità del mondo classico, evocata da Giuliano Volpe e che non dobbiamo disperdere, né surrogare, come polemicamente adombra Bettini, con “ore di socializzazione, educazione a esprimere se stessi, lettura del codice della strada (per prendere la patente di guida), riscoperta delle radici identitarie attraverso i dialetti, apprendimento di una seconda lingua straniera – da sommare all’ignoranza della prima – realizzato attraverso l’opera di un insegnante che a sua volta non la sa”: è indispensabile passare dalla difesa all’attacco, “scommettendo” su un ampliamento del numero dei cittadini che siano sempre più consapevoli ed “esperti” della nostra Eredità Culturale. In tal modo la protezione e la comunicazione di tale eredità non riposerà solo sull’interdizione e su una sua fruizione inevitabilmente ristretta ed elitaria.

Bisognerà dunque:

  • Arricchire e ampliare la formazione dei docenti di culture classiche e di storia dell’arte ad altri ambiti, oltre a quello più propriamente filologico, quali, ad esempio, la didattica dell’archeologia, la didattica museale, l’antropologia culturale, i fondamenti del diritto romano, le tecniche del restauro;
  • Consentire che, almeno gli studenti dell’ultimo triennio di tutti gli indirizzi di scuola superiore profittino di curricola flessibili, all’interno dei quali, come accade, ad esempio, in Belgio, Danimarca e Regno Unito, possano esplorare il mondo antico e il suo grandioso lascito senza necessariamente passare per lo studio diretto delle lingue classiche, ma utilizzando testi tradotti e retroversioni; così, accanto all’indirizzo classico tradizionale, che pure dovrebbe accogliere un tale ampliamento di prospettive, si costituirebbe un ambito disciplinare di “civiltà antiche”, da estendere anche a indirizzi che oggi ne sono privi, perché l’eredità del mondo greco e latino non resti patrimonio di pochi, ma riesca a rendere partecipi e consapevoli quanti più futuri cittadini possibile della nostra Eredità Culturale  e delle nostre radici, nonché della necessità di non reciderle;
  • Collegare scuole e istituti che operano sul territorio in percorsi non desultori e occasionali, dipendenti assai spesso e per fortuna dall’apertura mentale di molti insegnanti e dirigenti scolastici, in un sistema di reti in cui parte del curricolo possa trovar posto nell’ apprendimento sul campo o in laboratorio. Abbiamo la fortuna di avere una ricchezza in opere, paesaggi, città diffusa su tutto il territorio nazionale e senza eguali (ricordo che l’Italia, con 50 siti, è la nazione al mondo più rappresentata tra quelle incluse nella lista UNESCO) e sulla quale i nostri ragazzi sembrano spesso galleggiare inconsapevolmente.

Si salverà così il liceo classico e, più in generale, la “tradizione” (in senso etimologico) della cultura classica? Non è forse meglio lasciare che si attesti tra il 5 e il 6% delle scelte e conservi la sua funzione di scuola di formazione delle élites?  E’ un interrogativo aperto, sulla cui soluzione non si possono avere certezze. Quel che è certo è che l’Europa si  muove in altra direzione.  Il dato della disaffezione dalle discipline classiche tradizionali è generalizzato: fortemente ridotto lo studio del latino, il greco è pressoché scomparso dalle scuole secondarie del Continente.

Una  strategia “olistica” così come delineata da Giuliano Volpe per l’Eredità Culturale, se applicata, mutatis mutandis e in modo flessibile e ragionevole, anche alla scuola, consentirebbe un recupero della organicità nello studio del mondo antico, una sua maggiore e qualificata presenza nella formazione del cittadino e, last but not least, un ampliamento delle occasioni di nuove professionalità in ambito umanistico, sia in campo accademico che in quello della ricerca e della presenza sul territorio.

[1] In realtà, nel  curricolo del liceo linguistico il latino è presente, ma solo per due ore a settimana e solo per i primi due anni, una presenza poco più che fantasmatica, dunque.

La vittoria latina di Tsipras, di Giuseppe Cappello


Pubblico qui un altro, acuto e appassionato articolo del Professore Giuseppe Cappello, con un mio breve commento, nella speranza che il dialogo si allarghi e con esso la riflessione degli Onesti su quanto ci sta accadendo intorno. Perché neanche gli Onesti hanno in tasca la Verità.

Credo che per intendere nel profondo la vittoria di Tsipras si debba pensare, più che a una vittoria politica in senso stretto, a una vittoria della geografia; o, se si vuole, con un termine che si usa oggi per una materia del liceo, a una vittoria della geostoria. Una vittoria cioè di quella Europa latina che si sta rivoltando alla pallida Europa protestante e calvinista che, pur con le sue buone ragioni originarie, ha fatto ormai del cosiddetto rigore un’ideologia; così come della produttività. Sia chiaro, il rigore e la produttività, in una sfida globale con dei giganti economico-finanziari quali la Cina, non sono elementi da sottovalutare e fa bene la Germania a tenere quell’Europa mascalzona latina dentro un orizzonte congruo alle sfide della contemporaneità. Sennonché l’Europa non è solo la Germania e forse è venuto il momento del contributo, nel segno della fondante “unità nella diversità”, di quell’Europa mascalzona latina che non ha mai risolto l’uomo nella produttività. Non per un fatto politico, ma ancora prima per questioni di ordine antropologico-geografiche; e, pensando a Montesquieu, potremmo dire finanche meteorologiche. Leggendo in questo senso si spiegano, credo, anche le parole di Tsipras che hanno fatto storcere il naso a tanti suoi accoliti italiani quando il leader di Syriza ha affermato, un paio di giorni fa, di non conoscere Renzi direttamente ma di avere con lui «una sintonia naturale». Un po’ di respiro per chi, come il sottoscritto, vive politicamente quasi in esilio, essendo di sinistra ed esprimendo un certo sostegno per l’operato di Matteo Renzi. L’esilio di chi, apolide di sinistra, guarda al futuro con una lezione chiara: quella del liberalsocialismo di Guido Calogero. Purtroppo, minoritaria ma non idonea alle sette, una lezione quasi sconosciuta; la lezione di un maestro che in fondo, nelle sue Lezioni di filosofia, ci dice chiaramente quale sia il probabile punto di contatto anche politico oltre che geostorico fra Tsipras, che si allea con la destra nazionalista dell’Anel (e comunque invocato come ‘Mitiko’), e Matteo Renzi alle prese con Berlusconi (ad ogni passo messo all’indice dagli stessi  del ‘Mitiko’). Scrive Calogero proprio della politica: «la politica autentica, esattamente come la morale autentica, non è mai né meretricia né ascetica; o se si vuole è ad un tempo tanto meretricia quanto ascetica, tanto piegata al lavoro sulle bassure della terra quanto intenta a farne sorgere piante che s’innalzino al cielo». Parole alte che, al di là dei protagonisti di questi giorni, iscrivono nel cielo della politica l’unica stella polare che riteniamo possa essere utile alla errabonda sinistra italiana: quella della sua rifondazione liberalsocialista (prospettiva che poi, in fondo, ha la sua radice profonda nella più intima essenza dell’Europa).

pubblicato su “La Repubblica” del 28/01/2015 e sul sito http://www.giuseppecappello.it

Caro Professore,

sempre intelligenti e capaci di far riflettere, le sue parole.  Anche me, che, condividendo col lei la condizione di “apolide di sinistra”, sono sempre più cupamente convinto di essere dentro una nuova  “Gaia Apocalisse”.

“Mascalzone latino” era il nome di una barca di successo. La nostra barca però, con il suo sovrabbondante equipaggio di “simpatici mascalzoni” mi pare abbia delle perfòrmances (come direbbe il buon Matteo) assai meno positive; soprattutto, non si riesce a vedere chi stia al timone.

“Pallida Europa protestante e calvinista” versus “abbronzata Europa modello ‘mia fazza mia razza’”? Sarà che sono di origini settentrionali, ma questa polarità non mi convince.

Le dico sinceramente che non vedo un futuro protratto né per Syriza, confederazione di movimenti più eterogenea di quanto oggi, nell’euforia della vittoria, si creda, né per il suo renzianissimo leader, che del Fiorentino ha la medesima celerità (bene) e la medesima sfrontatezza (meno bene: l’alleanza con il partitino di destra estrema è evidentemente ancora legata alla politique politicienne : a questo partito, non è un caso, è andata la difesa, con un bilancio di oltre il 3% del PIL e restato sostanzialmente immune dalla scure abbattutasi sul resto del comparto pubblico. Che vorrà dire?). A meno che, di Renzi, Tsipras non abbia anche la disinvoltura tattica e il senso dell’esercizio puro del potere: “Letta, stai sereno …” Ricorda?

Non credo alle sintonie naturali, ma alla lotta tra gruppi di potere, cui si è da tempo ridotta, senza residui ideali, la democrazia in Occidente. Così, il decrepito e corrottissimo sistema politico greco si è disintegrato e allora largo ai giovani, con tanto di camicia obamian-renziana, slogan, radiosi orizzonti e soli dell’avvenire. Sono i quarantenni che stanno sostituendo i sessantenni, “los colorados” che si stanno sostituendo ai “blancos”. Niente più. Gli spazi di manovra per un autentico cambiamento della politica globale, quasi inesistente dopo l’89 (1989), sono oggi pressoché nulli.

Tornando ai pallidi Tedeschi, non si tratta di fare del Rigore un’ideologia, ma dell’Onestà sì.

La povera Grecia, giugulata dal lupo teutonico, ha allegramente dilapidato nello scorso decennio decine di miliardi di euro guadagnati con la sua entrata nella zona della moneta unica; il fatto è che si tratta di un paese forse più corrotto del nostro, in cui si pagano ancor meno tasse che da noi, con una massa ingente di capitali riparati all’estero, che ha (aveva?) una percentuale di impiegati pubblici abnorme, per raggiungere la quale noi, che pure in questo settore non scherziamo, dovremmo assumere altri 3.000.000 (tre milioni) di persone, che ha truccato i bilanci per anni.

Se non si prende coscienza di questo punto di partenza, dubito si possa procedere oltre in modo efficace.  “Non si mette il vino nuovo nell’otre vecchio” dice il Vangelo.

Chiagn’ e fott’”, sembra essere il motto dei simpatici e abbronzati mascalzoni latini (o, per meglio, dire italo-greci, perché Spagna e Portogallo sono altra cosa: hanno posseduto imperi, sono stati per secoli “padroni” e non “un volgo disperso che nome non ha”. Vedremo come andrà con “Podemos”),  ma se non si ricostituisce la fiducia tra i diversi Stati europei, se non si smette di andare alla lavagna e di trascrivere su due colonne i buoni (quasi sempre a sud) e i cattivi (quasi sempre a nord), se non si procede ad asportare al più presto , da noi e in Grecia, il tessuto canceroso cresciuto tra politica, affari e criminalità organizzata,  il sogno di Spinelli evaporerà ben presto. E non sarà colpa della Germania.

Liberalsocialismo? Di Guido Calogero ho letto qualche suo scritto sulla scuola e sulla filosofia greca. Grandissimo e, ahinoi, inascoltato intellettuale. Le confesso che accostarlo, solo di sfuggita, a Matteo Renzi mi fa venire i brividi.

Vero, verissimo che la politica è l’arte dell’”onesta dissimulazione”, del compromesso, dell’alto che si mescola con il basso, ma mi pare sia sotto gli occhi di tutti che da anni si pratica solo il “lavoro sulle bassure”. Che ne dice del modo osceno con cui si stanno conducendo le operazioni per l’elezione del prossimo presidente della repubblica? Pranzi, cene, colazioni, incontri segreti, emissari, pellegrinaggi al Naz(z)areno. E il Parlamento Repubblicano, dov’è? Lo si teme a tal punto che bisogna approntare prima la mordacchia per metterlo a cuccia? Neanche le apparenze si salvano più.

Spero di poter leggere in qualche suo altro scritto dove Renzi e il suo seguito stiano invece  “facendo nascere piante che si innalzino al cielo”.

Perché, caro Professore, non mi auguro altro che di avere torto.

GIORGIO NAPOLITANO È UN EX: QUALCHE RIFLESSIONE SU UN IPERSETTENNATO


Il compagno Giolitti ha il diritto di esprimere le proprie opinioni, ma io ho quello di aspramente combattere le sue posizioni. L’intervento sovietico ha non solo contribuito a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione ma alla pace nel mondo.”

Giorgio Napolitano, novembre 1956 sull’insurrezione magiara contro il regime sovietico

Ho reso questo omaggio sulla tomba di Imre Nagy a nome dell’Italia, di tutta l’Italia, e nel ricordo di quanti governavano l’Italia nel 1956 e assunsero una posizione risoluta, a sostegno dell’insurrezione ungherese e contro l’intervento militare sovietico“.

Giorgio Napolitano, settembre 2006, discorso in omaggio delle vittime dell’insurrezione di 50 anni prima

In quest’ultima occasione, non una parola di pubbliche scuse per il proprio tragico errore d’allora. Ricordo che il socialdemocratico Willy Brandt, partigiano e resistente, nel 1970, con la Guerra Fredda ancora in atto, cadde in ginocchio, in Polonia, dinnanzi al monumento alle vittime del nazismo.

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Giorgio Napolitano lascia dunque la sua carica, esercitata, negli ultimi tre anni, ai limiti estremi del mandato costituzionale, a partire dalla inusitata rielezione “a termine”, accettata – non credo controvoglia –  perché il Parlamento non era in grado (!) di adempiere ai suoi doveri istituzionali. Ricordiamo tutti la strigliata da severo maestro di scuola data ai parlamentari il giorno stesso del suo insediamento e l’inverecondo applauso (quasi) generale dei discoletti aspramente rimbrottati.

Tre anni in cui siamo stati messi sotto tutela da un presidente educato all’antica pratica delle “due verità”, una “più vera” che è quella di chi governa, che sa cose che nessuno conosce e l’altra “apparente”, buona per il popolo, tanto simpatico e pieno di qualità, ma sostanzialmente incapace di comprendere gli arcana imperii e perciò stesso non in grado di decidere da solo il proprio destino, senza la guida cioè di chi è Saggio, del Migliore, insomma.

Così, dalla crisi del berlusconismo della fine del 2011 si è usciti scavalcando Parlamento e elettori,  con la nomina del paracadutista Monti,  lanciato dall’aereo europeo su un paese tenuto in scacco dalla speculazione finanziaria internazionale.

Così, dalla difficile situazione venutasi a creare dopo le elezioni 2013, con l’inaspettato e prepotente emergere di un 25% di italiani “antisistema”, si è usciti con un governo da “Union Sacrée”, con la nomina tutta quirinalizia di Enrico Letta, ottima persona, ma vaso di coccio tra vasi di ferro, poi pugnalato alle spalle e senza che dal Colle si levasse una sola parola di sdegno e di riprovazione, dal “giovane” Renzi, eletto da nessuno (le primarie del PD? Cosa sono?) e che, qualche tempo prima (si era nel 2010), guarda caso, era andato a pranzo da Berlusconi ad Arcore. “Tu mi somigli” aveva detto allora il Cavaliere. Ricordate?

Così, oggi si è governati da un PD che ha ottenuto il premio di maggioranza con una coalizione che poi si è dissolta (SEL è passata all’opposizione) e da un pezzo dell’ex opposizione, che, battuta sonoramente alle urne, ha generato, sempre sotto lo sguardo benevolo del presidente, un’inedita formazione ad hoc, l’NCD, con un profilo politico difficilmente rintracciabile,  se non nel desiderio di gestire comunque una fetta di potere, centralmente e localmente.

Già, perché questo presidente ha saputo tacere e volgere la testa dall’altra parte (esercizio praticato a lungo e con lusinghieri risultati personali quando era nel PCI), ma anche parlare ed entrare direttamente nell’agone partitico, distribuendo patenti di legittimità, di sovversivismo, di pericolosità, nominando e imperiosamente consigliando.

Un triste epilogo, questi ultimi tre anni, per un nonagenario dalle molte stagioni, da quella stalinista (leggere il libro di Ermanno Rea, “Mistero Napoletano”, del 1995), a quella del migliorismo moderato, comunque sempre ben centrale e coperto (leggere l’autobiografia di Giorgio Amendola, “Una scelta di vita” del 1976 e ripensare al migliorismo, questo sì coraggioso, dell’amico Emanuele Macaluso), infine a quella del tecnoeuropeismo e della governabilità a tutti i costi, che il presidente ha sempre scambiato con il sostanziale mantenimento dello status quo.

Tre anni in cui nulla si è fatto di serio, se non vacue esortazioni al cambiamento e un gran vociare di proclami e leggi demagogiche e pasticciate. Per essere precisi, qualcosa di serio c’è stato: il costante, inarrestabile aumento del debito pubblico, nonostante un livello di tassazione che ormai veleggia oltre il 50%, un tasso di disoccupazione giovanile del 43%, l’ulteriore riduzione dei consumi, il declino del pur solidissimo risparmio privato degli italiani e, più in generale, un clima di generale depressione, che sono convinto amareggi anche l’ex presidente Napolitano.

 

Analisi del 2014


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Ecco un estratto:

Un “cable car” di San Francisco contiene 60 passeggeri. Questo blog è stato visto circa 2.400 volte nel 2014. Se fosse un cable car, ci vorrebbero circa 40 viaggi per trasportare altrettante persone.

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